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Posts Tagged ‘Arthur Schopenhauer’

Mi sembra che questo descriva perfettamente la realtà dei dibattiti televisivi odierni. Tutti alzano la voce, specie quando non hanno validi argomenti di discussione.

Stratagemma n.38

Quando ci si accorge che l’avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona. Lo si potrebbe chiamare argumentum ad personam, e va distinto dall’argumentum ad hominem che si allontana dal puro oggetto in discussione per attaccarsi a ciò che l’avversario ha detto o ha ammesso. Con questo ultimo stratagemma, invece, si abbandona del tutto l’oggetto e si dirige il proprio attacco contro la persona dell’avversario: si diventa dunque insolenti, perfidi, oltraggiosi, grossolani. Si tratta di un appello delle forze dello spirito a quelle del corpo o all’animalità. Questa regola è molto popolare poiché chiunque è in grado di metterla in pratica, e viene quindi impiegata spesso. Ci si chiede ora quale controregola valga in questo caso per l’altra parte. Perché, se questa farà uso della stessa regola, si arriverà a una rissa, a un duello o a un processo per ingiuria.

Ci si sbaglierebbe di grosso se si pensasse che basti non solo non diventare offensivi. Infatti, mostrando a uno, in tutta pacatezza, che ha torto e che dunque giudica e pensa in maniera sbagliata, come accade in ogni vittoria dialettica, lo si amareggia più che con qualsiasi espressione grossolana e oltraggiosa. Perché? Perché, come dice Hobbes nel De cive, capitolo I [par.5]: Omnis animi voluptas, omnisque alacritas in eo sita est, quod quid habeat, quibuscum conferens se, possit magnifice sentire de seipso [Ogni piacere dell’animo e ogni ardore risiedono nell’avere qualcuno, dal confronto con il quale si possa trarre un altro sentimento di sé]. Nulla supera per l’uomo la soddisfazione della sua vanità, e nessuna ferita duole più di quella in cui viene colpita la vanità. (Da ciò derivano modi di dire come «l’onore vale più della vita» e così via). Questa soddisfazione della vanità nasce principalmente dal confronto di se stessi con altri, sotto ogni aspetto, ma principalmente in relazione all’intelligenza. Questa soddisfazione si verifica effective e molto intensamente nel disputare. Di qui l’amarezza dello sconfitto senza che gli si commetta torto, e di cui il suo ricorso, come extrema ratio, a quest’ultimo stratagemma: ad esso non si può sfuggire con la semplice gentilezza da parte nostra. Avere un gran sangue freddo può tuttavia essere utile anche in questa occasione, se cioè, non appena l’avversario diventa offensivo, si risponde con calma che ciò non pertiene alla cosa in questione e si ritorna subito su questa, continuando a dimostrargli il suo torto senza badare alle offese – dunque più o meno come dice Temistocle ad Euribiade:[…] [bastonami ma ascoltami. Plutarco, Temistocle, II, 20]. Ma questo non è da tutti.

L’unica controregola sicura è perciò quella che già Aristotele indica nell’ultimo capitolo dei Topici: non disputare con il primo arrivato, ma solo con coloro che si conosce e di cui si sa che hanno intelletto sufficiente da non proporre cose tanto assurde da esporli all’umiliazione; e che hanno abbastanza intelletto per disputare con ragioni, e non con decisioni perentorie, e per ascoltare ragioni e acconsentirvi; e, infine, che apprezzano la verità, ascoltano volentieri buone ragioni, anche quando provengono dalla bocca dell’avversario, e siano abbastanza equi da saper sopportare di ottenere torto quando la verità sta dall’altra parte. Da ciò segue che, fra cento persone, ce n’è forse una degna che si disputi con lei. Agli altri si lasci dire quello che vogliono, perché desipere est juris gentium [essere irragionevoli è un diritto umano], e si rifletta su ciò che dice Voltaire: La paix vaut encore mieux que la verité [La pave è preferibile alla verità]; e un detto arabo recita: «Il frutto della pace è appeso all’albero del silenzio».

In ogni caso, la disputa, come attrito di teste, è spesso di reciproca utilità per rettificare i propri pensieri e anche per produrre nuovi punti di vista. Ma i due contendenti devono essere pressoché pari fra loro per erudizione e intelligenza. Se uno è privo della prima, allora non capisce tutto, non è au niveau. Se gli manca la seconda, allora il rancore che ne sorge lo istigherà a cose sleali e ad astuzie, o alla villania.

Tra la disputa in colloquio privato sive familiari e la disputatio solemnis, pro gradu non v’è alcuna differenza essenziale. La differenza è solo che in quest’ultima si richiede che il respondens debba sempre ottenere ragione contro l’opponens e quindi che all’occorrenza chi presiede, il praeses, lo soccorra; o anche che in essa si argomenta in modo più ufficiale e si rivestono volentieri i propri argomenti di una forma sillogistica rigorosa.

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Stratagemma n.35

il quale, non appena sia praticabile, rende superflui tutti gli altri: anziché agire sull’intelletto con ragionamenti, si agisca sulla volontà con motivazioni, e l’avversario, come pure gli uditori se hanno gli stessi suoi interessi, sono subito conquistati alla nostra opinione, fosse anche presa a prestito dal manicomio: per lo più, infatti, una briciola di volontà pesa più di un quintale di giudizio e di persuasione. Naturalmente funziona solo in circostanze particolari. Se si riesce a far avvertire all’avversario che la sua opinione, se fosse valida, arrecherebbe un notevole danno al suo stesso interesse, egli la lascerà cadere con la stessa rapidità con cui si molla un ferro bollente incautamente afferrato. Per esempio: un religioso difende un dogma filosofico: gli si faccia osservare che esso è indirettamente in contraddizione con un dogma fondamentale della sua chiesa, ed egli lo lascerà cadere.

Un possidente terriero afferma l’eccellenza della meccanica in Inghilterra, dove una macchina a vapore compie il lavoro di molti uomini: gli si lasci intendere che presto anche i veicoli saranno tirati da macchine a vapore, sicché i prezzi dei cavalli delle sue numerose scuderie dovranno subire un crollo – e si vedrà. In questi casi il sentimento di ognuno è di regola: quam temere in nosmet legem sancimus iniquam [con quanta leggerezza enunciamo una legge iniqua contro noi stessi, Orazio, Satire, I, 3, 67].

Si agisca così quando gli uditori, ma non l’avversario, fanno parte della nostra stessa setta, corporazione, sindacato, club, e così via. La sua tesi può anche essere giusta, ma è sufficiente alludere al fatto che essa è in contrasto con l’interesse comune della suddetta corporazione, ecc., che tutti gli uditori troveranno gli argomenti dell’avversario deboli e miserabili anche se sono ottimi, e i nostri giusti e centrati anche se fossero campati per aria; il coro si proclamerà a gran voce in nostro favore e l’avversario dovrà sgombrare il campo umiliato. Anzi, gli uditori per lo più crederanno di avere dato la loro approvazione per puro convincimento. Infatti, ciò che va a nostro danno, appare per lo più assurdo all’intelletto. Intellectus homini sicci non est recipit infusionem a voluntate et affectibus [l’intelletto non è una luce che arde senza olio, ma viene alimentato dalla volontà e dalle passioni, Francis Bacon, Novum Organom, I, 49]. Di questo stratagemma si potrebbe dire «prendere l’albero per le radici»: di solito viene chiamato argomentum ab utili.

Stratagemma n.36

Sconcertare, sbigottire l’avversario con sproloqui privi di senso. Ciò riposa sul fatto che:

Gewöhnlich glaubt der Mensch, wenn er nur Wortz hört,
Es müsse sich dabei doch auch was denken lassen
[«L’uomo crede abitualmente, anche se solo parole sente, / che vi si debba poter trovare pur qualcosa da pensare (Johann Wolfgang Goethe, Faust, I, vv. 2565-66].

Se ora, in cuor suo, egli è consapevole della propria debolezza, se è abituato a sentire cose che non capisce, e tuttavia a fare come se le capisse, si può impressionarlo propinandogli con aria seria una scemenza che suona dotta o profonda, di fronte alla quale gli vengono meno udito, vista e pensiero [Schopenhauer pensa qui probabilmente di nuovo al Faust goethiano, alla scena di cui riprende le parole: «Und in den Sälen, auf dem Bänken, / Vergeht mir Hören, Sehen und Denken» (I, 1886-87)], e spacciarla come la prova più incontestabile della propria tesi. Come è noto, recentemente alcuni filosofi hanno adoperato questo stratagemma, con esiti brillantissimi, addirittura di fronte all’intero pubblico tedesco. Poiché però si tratta di exempla odiosa, ricorreremo a un esempio più antico tratto da Oliver Goldsmith, The Vicar of Wakefield [cap. VII].

Stratagemma n.37

(che dovrebbe essere uno dei primi). Quando l’avversario, pur avendo nei fatti ragione, per fortuna sceglie una cattiva prova; non abbiamo allora difficoltà a confutarla, e poi spacciamo questa per una confutazione della cosa. In fondo, qui tutto si basa sul fatto che spacciamo un argomentum ad hominem per uno ad rem. Se a lui, o agli astanti, non viene in mente alcuna prova migliore, abbiamo vinto noi. Per esempio quando uno, per dimostrare l’esistenza di Dio, presenta la prova ontologica, assai facile da confutare Questo è il modo in cui i cattivi avvocati perdono una buona causa: vogliono difenderla con una legge che non vi si presta, e quella che si presta non viene loro in mente.

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Stratagemma n.31

Qualora non si sappia opporre nulla alle ragioni esposte dall’avversario ci si dichiari, con fine ironia, incompetenti: «Quello che lei dice supera la mia debole comprensione: sarà senz’altro giustissimo, ma io non riesco a capirlo e rinuncio a ogni giudizio». Con ciò, negli uditori presso i quali si è tenuti in considerazione, si insinua che si tratta di una cosa insensata. Molti professori della vecchia scuola eclettica all’apparire della Critica della ragione pura o, meglio, quando essa iniziò a suscitare scalpore, dichiararono: «Noi non la capiamo!», e con ciò pensarono di essersene disfatti. Quando però alcuni adepti della nuova scuola mostrarono loro che avevano proprio ragione e che davvero non la capivano, il loro umore ebbe un brusco cambiamento.

Questo stratagemma si può adoperare solo laddove si sia sicuri di essere decisamente più stimati dell’avversario presso l’uditorio. Per esempio: un professore contro uno studente. In realtà rientra nello stratagemma precedente ed è un modo particolarmente malizioso di far valere la propria autorità in luogo delle ragioni. Il tiro contrario è: «Mi permetta, con il Suo acume dev’essere un’inezia capirlo, e può solo esser colpa della mia cattiva esposizione» – poi sbattergli la cosa sul muso in modo che, nolens volens, egli debba capirla, e risulti chiaro che prima, effettivamente, era lui a non averla capita. Così l’argomento è ritorto: lui voleva insinuare nei nostri confronti un non-senso, noi gli abbiamo dimostrato che era lui a non aver capito. Entrambi con squisita gentilezza.

Stratagenna n.32

Un modo spiccio per accantonare, o almeno rendere sospetta, una affermazione a noi contraria dell’avversario, è quello di ricondurla a una categoria odiata, anche se la relazione è solo di vaga somiglianza o è tirata per i capelli; per esempio: «Questo è manicheismo; questo è arianesimo; questo è pelagianesimo; questo è idealismo; questo è spinozismo; questo è panteismo; questo è brownianismo; questo è naturalismo; questo è ateismo; questo è spiritualismo; questo è misticismo; e così via». Con ciò supponiamo due cose:

  1. che quella affermazione è effettivamente identica a quella categoria, o che almeno è contenuta in essa, ed esclamiamo dunque: «Oh! Questa non è affatto nuova!»;
  2. che questa categoria è già stata del tutto confutata e non può contenere una sola parola di vero.

Stratagemma n.33

«Ciò sarà anche vero in teoria; in pratica però è falso». Con questo sofisma si ammettono le ragioni e tuttavia si negano le conseguenze; in contraddizione con la regola a ratione ad rationatum valet consequentia [da una ragione al suo effetto vige la consequenzialità]. L’affermazione pone una cosa impossibile: ciò che è giusto in teoria deve valere anche in pratica: se ciò non si verifica, allora c’è un errore nella teoria, qualche cosa è stato trascurato e non è stato calcolato e, di conseguenza, è falso anche nella teoria.

Stratagemma n.34

Se a una domanda o a un argomento l’avversario non dà una risposta diretta o non prende una posizione precisa, ma evade con una controdomanda, una risposta indiretta o addirittura con qualcosa che non è pertinente all’oggetto in discussione, e vuole andare a parare da tutt’altra parte, questo è un segno sicuro che abbiamo toccato (magari senza saperlo) un punto marcio: si tratta, da parte sua, di un ammutolimento relativo. È necessario dunque incalzare sul punto che abbiamo toccato e non mollare, anche quando non vediamo ancora in che cosa consista la debolezza che abbiamo colpito.

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Stratagemma n.30

L’argumentum at verecundiam. Al posto delle motivazioni, ci si serva di autorità, secondo le conoscenze dell’avversario. Dice Seneca: unusquisque mavult credere quam judicare [ognuno preferisce credere che giudicare, De vita beata, I, 4]. Si ha dunque buon gioco quando si ha dalla propria parte un’autorità che l’avversario rispetta. Ma per lui ci saranno tante più autorità valide, quanto più sono limitate le sue conoscenze e le sue capacità. Se queste sono di prim’ordine, per lui ce ne saranno pochissime, pressoché nessuna. Egli accetterà, tutt’al più, l’autorità di persone competenti in una scienza, arte o professione a lui poco conosciuta o del tutto ignota, e anche questa con diffidenza. Al contrario, la gente comune ha profondo rispetto per gli esperti di ogni genere. Essi non sanno che chi fa professione di qualcosa non ama questa ma il suo guadagno: né sanno che chi insegna una certa cosa raramente la conosce a fondo, perché a chi la studia a fondo di solito non rimane neppure il tempo per insegnare. Solo per il vulgus ci sono molte autorità che trovano rispetto: se non se ne ha alcuna che fa al caso, se ne prenda una apparentemente adatta, si citi ciò che uno a detto in un altro senso o in altre circostanze. Le autorità che l’avversario non capisce affatto per lo più producono l’effetto migliore. Gli incolti hanno un rispetto tutto particolare per le espressioni retoriche greche o latine. All’occorrenza, le autorità si possono non solo distorcere, ma addirittura falsificare o perfino inventare: per lo più l’avversario non ha il libro a portata di mano e non sa nemmeno come consultarlo. Il più bell’esempio a questo proposito è offerto dal francese Curé, il quale, per non pavimentare la strada davanti alla sua casa, come erano obbligati a fare gli altri cittadini, citò un detto biblico: paveant illi, ego non pavebo [tremino pur quelli, io non tremerò] (1). Ciò convinse gli amministratori comunali. Anche pregiudizi generali possono essere utilizzati come autorità. Infatti, con Aristotele, credo nell’Etica Nicomachea, i più pensano: α μεν πολλοιζ δοχει ταυτα γε ειναι φαμεν [le cose che sembrano giuste a molti, queste diciamo che sono, Etica Nicomachea, X, 2, 1172 b 36]; sì, non c’è alcuna opinione, per quanto assurda, che gli uomini non abbiano esitato a far propria, non appena si è arrivati a convincerli che tale opinione è universalmente accettata. L’esempio fa l’effetto sia sul loro pensiero, sia sul loro agire. Essi sono pecore che vanno dietro al montone ovunque le conduca: è per loro più facile morire che pensare. È assai curioso che l’universalità di una opinione abbia per loro tanto peso, dal momento che essi possono pur vedere su di sé quanto si accettino opinioni senza giudizio e solo in forza dell’esempio. Ma in realtà non lo vedono, perché manca loro ogni conoscenza di sé. Solo i migliori dicono, con Platone, τοις πολλοις πολλα δοχει [i molti hanno molte opinioni, Repubblica, IX, 576 c], cioè il vulgus ha molte frottole in testa e, se si volesse tenerne conto, si avrebbe un gran da fare.

L’universalità di un’opinione, parlando seriamente, non costituisce né una prova né un motivo che la rende probabile. Coloro che lo affermano devono ammettere:

  1. che la distanza nel tempo priva quella universalità della sua forza probante: altrimenti dovrebbero riportare in vigore tutti gli antichi errori che un tempo erano universalmente considerati verità: per esempio, dovrebbero ripristinare il sistema tolemaico oppure, nei paesi protestanti, il cattolicesimo;
  2. che la distanza nello spazio produce lo stesso effetto: altrimenti l’universalità di opinione fra chi professa il buddhismo, il cristianesimo e l’islamismo li metterà in imbarazzo. (Secondo Jeremy Bentham, Tactique des assemblées legislatives [Genève-Paris, 1816], vol. II, p. 76).

Ciò che così si chiama opinione generale è, a ben guardare, l’opinione di due o tre persone; e ce ne convinceremmo se potessimo osservare come si forma una tale opinione universalmente valida. Troveremmo allora che furono in un primo momento due o tre persone ad avere supposto o presentato e affermato tali opinioni, e che si fu così benevoli verso di loro da credere che le avessero davvero esaminate a fondo: il pregiudizio che costoro fossero sufficientemente capaci indusse dapprima alcuni ad accettare anch’essi l’opinione: a questi credettero a loro volta molti altri, ai quali la pigrizia suggerì di credere subito piuttosto che fare faticosi controlli. Così crebbe di giorno in giorno il novero di tali accoliti pigri e creduloni: infatti, una volta che l’opinione ebbe dalla sua un buon numero di voci, quelli che vennero dopo l’attribuirono al fatto che essa aveva potuto guadagnare a sé quelle voci solo per la fondatezza delle sue ragioni. I rimanenti, per non passare per teste irrequiete che si ribellano contro opinioni universalmente accettate e per saputelli che vogliono essere più intelligenti del mondo intero, furono costretti ad ammettere ciò che era già da tutti considerato giusto. A questo punto il consenso divenne un obbligo. D’ora in poi, i pochi che sono capaci di giudizio sono costretti a tacere e a poter parlare è solo che è del tutto incapace di avere opinioni e giudizi propri, ed è la semplice eco di opinioni altrui: tuttavia, proprio costoro sono difensori tanto più zelanti e intolleranti di quelle opinioni. Infatti, in colui che la pensa diversamente, essi odiano non tanto l’opinione diversa che egli professa, quanto l’audacia di voler giudicare da sé, cosa che essi stessi non provano mai a fare, e in cuor loro ne sono consapevoli. Insomma: a esser capaci di pensare sono pochissimi, ma opinioni vogliono averne tutti: che cos’altro rimane se non accoglierle belle e fatte da altri, anziché formarsele per conto proprio? Poiché questo è ciò che accade, quanto può valere ancora la voce di cento milioni di persone? Tanto quanto un fatto storico che si trova in cento storiografi, ma poi si verifica che tutti si sono trascritti l’uno l’altro, per cui, alla fine, tutto si riconduce all’affermazione di uno solo (secondo Pierre Bayle, Pensées sur les comètes [4ª edizione, 1704], tomo I, p. 10).

Dico ego, tu dicis, sed denisque dixit et ille:
Dictaque post toties, nil nisi dicta vides.(2)

Nondimeno, quando si discute con gente comune si può fare uso dell’opinione generale come di un’autorità.

In genere si troverà che quando due teste ordinarie disputano fra loro, l’arma comune che essi scelgono sono le autorità: con queste si battono l’un l’altro. Se una testa più fine ha a che fare con un tipo del genere, la cosa migliore è che anch’egli si adatti a quest’arma, scegliendola secondo i punti deboli dell’avversario. Infatti, contro l’arma delle ragioni questi è, ex hypothesi, un Sigfrido cornuto immerso nella marea dell’incapacità di pensare e giudicare.

In tribunale si disputa esclusivamente ricorrendo ad autorità, all’autorità delle leggi che è certa: è compito della facoltà del giudizio reperire la legge, cioè l’autorità, che trova applicazione nel caso dato, Ma la dialettica ha spazio d’azione sufficiente quando, all’occorrenza, il caso concreto e una legge che in realtà non si accordano vengono rigirati finché li si considera in accordo: anche viceversa.

(1) L’aneddoto si trova in Claude Adrien Helvétius, De l’esprit, II, cap. XIX.
(2) «Io lo dico, tu lo dici, ma alla fine lo dice anche quello: / Dopo che lo si è detto tante volte, altro non vedi se non ciò che è stato detto». Motto che si trova in esergo alla «Parte polemica» della Farbenlehre [Teoria dei colori] di Goethe.

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I politici di oggi usano, forse inconsciamente, questi due stratagemmi molto spessi.

Stratagemma n.28

Questo stratagemma lo si può adoperare principalmente quando persone colte disputano davanti ad ascoltatori incolti, Quando non si dispone di alcun argumentum ad rem e nemmeno di uno ad hominem, allora se ne fa uno ad auditores, cioè si avanza un’obiezione non valida, di cui però solo un esperto vede l’inconsistenza: ma, mentre l’avversario è un esperto, tali non sono gli ascoltatori. Ai loro occhi egli viene dunque battuto, tanto più se la nostra obiezione riesce a porre in una luce ridicola la sua affermazione. A ridere la gente è subito pronta, e quelli che ridono li si ha dalla propria parte. Per mostrare che l’obiezione è nulla, l’avversario dovrebbe inoltrarsi in una lunga discussione e risalire ai principi della scienza, o cose del genere: ma se lo fa, non trova facilmente ascolto.

Esempio

L’avversario dice: nella formazione della crosta rocciosa archeana, la massa dalla quale si cristallizzò il granito e tutta la roccia restante era liquida a causa del calore, cioè fusa: il calore doveva essere di circa 200° R: la massa si cristallizzò sotto la superficie del mare che la copriva. Noi avanziamo l’argomentum ad auditores che a quella temperatura, anzi, assai prima, a 80° R, il mare si sarebbe volatilizzato da un bel pezzo e aleggerebbe sotto forma di vapore. Gli ascoltatori ridono. Per batterci egli dovrebbe mostrare che il punto di ebollizione non dipende solo dal grado di calore, ma altresì dalla pressione atmosferica, e questa, non appena circa la metà dell’acqua del mare è evaporata, è cresciuta al punto che neppure a 200° R ha luogo l’ebollizione. Ma egli non riesce a dimostrarlo giacché per chi non sa nulla di fisica sarebbe necessario un intero trattato.

Stratagemma n. 29

Se ci si accorge di venire battuti (vedere lo stratagemma n. 18), allora si fa una diversione, cioè si comincia d’un tratto con qualcosa di totalmente diverso, come se fosse pertinente alla questione e costituisse un argomento contro l’avversario. Questo avviene con un certo ritegno se la diversione riguarda ancora in generale il thema questionis; sfacciatamente se riguarda solo l’avversario e non parla affatto della cosa in questione.
Per esempio, io lodavo il fatto che in Cina non esiste nobiltà ereditaria e gli uffici vengono assegnati solo in seguito a examina. Il mio avversario affermò che il sapere non prepara a esercitare uffici più dei privilegi di nascita (che egli teneva in qualche considerazione). Ma gli andò storta. Subito fece una diversione, dicendo che in Cina tutti i ceti vengono castigati con la punizione corporale, e mise questo in relazione con il molto bere tè, rimproverando ai Cinesi l’una e l’altra cosa. Ora, chi s’impelagasse senz’altro in tutto questo, si sarebbe lasciato sviare e quindi si sarebbe lasciato sfuggire di mano la vittoria già raggiunta.
La diversione è sfacciata quando abbandona completamente la cosa in questione e attacca circa così: «Sì, e del resto anche lei affermava di recente ecc.». Rientra infatti in una certa misura, nel «diventare offensivi», di cui si parlerà nell’ultimo stratagemma. Considerata in senso stretto, la diversione è un grado intermedio fra l’argumentum ad personam, di cui si discuterà appunto nell’ultimo stratagemma, e l’argumentum ad hominem.
Quanto questo stratagemma sia per così dire innato, lo mostra ogni lite fra gente comune: infatti, se uno avanza all’altro rimproveri personali, questi risponde non già confutandoli, ma muovendo lui rimproveri personali al al primo, lasciando sussistere e quindi quasi ammettendo, quelli rivolti a lui stesso. Si comporta come Scipione che affrontò i Cartaginesi non in Italia, ma in Africa. In guerra tale diversione a volte può anche dimostrarsi utile. Nel contendere non va bene, perché non si fa nulla contro i rimproveri ricevuti e che ascolta viene a sapere le magagne di entrambe le parti. Nel disputare è in genere usata solo la faute de mieux.

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Cosa può esserci di meglio che iniziare l’anno con l’Arte di ottenere ragione di Arthur Schopenhauer? Altro che bollicine!

Stratagemma n. 24

La forzatura della consequenzialità. Dalla tesi dell’avversario si traggono a forza, attraverso false deduzioni e deformando i concetti, altre tesi che non vi sono contenute e non corrispondono affatto all’opinione dell’avversario, ma sono assurde o pericolose: poiché, ora, sembra che dalla sua tesi  di partenza discendano tali proposizioni, che sono in contraddizione o con se stesse o con verità riconosciute, ciò vale come una confutazione indiretta, apagoge: è un nuovo impiego della fallacia non causae ut causae.

Stratagemma n. 25

Questo stratagemma para l’apagoge con una «istanza», exemplum in contrarium. L’επαγουγη, inductio, abbisogna di una gran quantità di casi per porre il principio universale: l’απαγουγη basta che presenti un unico caso in cui il principio non è valido, e questo è demolito: un caso del genere si chiama «istanza», ευαταοις, exemplum in contrario, instantia. Per esempio, la proposizione: «Tutti i ruminanti sono cornuti» viene demolita tramite l’unica «istanza» dei cammelli.

L’«istanza» è un caso di applicazione della verità generale: sotto il concetto principale di quest’ultima deve essere sussunto qualcosa per cui però quella verità generale non vale: perciò essa viene completamente demolita. Sennonché qui possono verificarsi inganni: perciò quando l’avversario muove istanze dobbiamo stare attenti a quanto segue:

  1. se l’esempio sia effettivamente vero; ci sono problemi la cui unica soluzione autentica è che il caso non è vero: per esempio molti miracoli, storie di spiriti, e così via;
  2. se rientri effettivamente nel concetto della verità presentata: spesso è così solo in apparenza e per chiarirlo è necessaria una precisa distinzione;
  3. se sia effettivamente in contraddizione con la verità presentata: spesso è così solo in apparenza.

Stratagemma n. 26

Un tiro brillante è la retorsio argumenti: quando l’argomento che l’avversario vuole usare a proprio vantaggio può essere usato meglio contro di lui. Per esempio egli dice: «È un bambino, bisogna pur concedergli qualcosa»; retorsio: «Proprio perché è un bambino bisogna castigarlo, affinché non perseveri nelle sue cattive abitudini».

Stratagemma n. 27

Se, di fronte a un argomento, l’avversario inaspettatamente si adira, allora bisogna incalzare senza tregua con quell’argomento: non soltanto perché va bene per farlo montare in collera, ma perché si deve supporre di aver toccato il lato debole del suo ragionamento, e di potergli nuocere, a questo punto ancor più di quanto si possa credere in un primo tempo.

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Come ottenere ragione in 38 mosse – 16-20
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Sempre dall’Arte di ottenere ragione di Arthur Schopenhauer.

Stratagemma n. 21

Se ci accorgiamo che l’avversario fa uso di un argomento solo apparente o sofistico, possiamo certo annullarlo mettendone in luce la capziosità e illusorietà, ma è meglio liquidarlo ricorrendo a un controargomento altrettanto sofistico e apparente. Infatti quello che importa non è la verità, ma la vittoria. Se egli, per esempio, avanza un argumentum ad hominem, è sufficiente infirmarlo con un controargomento ad hominem (ex concessis): e in generale, se se ne offre l’opportunità. è più breve presentare un argumentum ad hominem, anziché fare una lunga discussione sulla vera natura della cosa.

Stratagemma n. 22

Se l’avversario ci chiede di ammettere una cosa da cui il problema in discussione conseguirebbe immediatamente, rigettiamola spacciandola per una petitio principii: infatti non sarà difficile che sia lui chi ascolta considerino identica al problema una tesi strettamente affine: e così gli sottraiamo il suo argomento migliore.

Stratagemma n. 23

La contraddizione e la lite spingono a esagerare l’affermazione. Possiamo dunque stuzzicare l’avversario contraddicendolo, e indurlo così a esagerare oltre il vero un’affermazione che in sé, e in un certo ambito,potrebbe essere vara: e una volta confutata questa esagerazione, è come se avessimo confutato anche la sua tesi di partenza. Al contrario, quando veniamo contraddetti, dobbiamo fare attenzione a non esagerare o estendere la nostra tesi. Spesso inoltre sarà l’avversario a fare direttamente il tentativo di estendere la nostra affermazione oltre i termini nei quali noi l’abbiamo posta: dobbiamo allora fermarlo subito e ricondurlo ai limiti della nostra affermazione con un «tanto ho detto, e niente di più».

 

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Dopo una pausa di riflessione, riprendiamo il discorso filosofico con Schopenhauer.

Stratagemma n. 16

Argumento ad hominem o ex concessisis. Di fronte a un’affermazione dell’avversario dobbiamo cercare se per caso essa non sia in qualche modo, all’occorrenza anche solo apparentemente, in contraddizione con qualcosa che egli ha detto o ammesso in precedenza; oppure con i canoni di una scuola o di una setta che egli ha lodato e approvato; oppure con l’agire degli adepti di questa setta, o anche solo degli adepti falsi e apparenti; oppure con il suo stesso comportamento. Se per esempio egli difende il suicidio, allora gli si grida subito: «Perché non ti impicchi?». Oppure afferma che Berlino è un luogo di soggiorno sgradevole, e gli si grida subito: «Perché non te ne parti immediatamente con la prima diligenza?». In un modo o nell’altro, si riuscirà ben a cavar fuori un raggiro.

Oppure, se dichiara che a Napoli ci sono gli ospedali migliori del mondo, perché poi va a curarsi in America? O se sostiene che la famiglia sia un vincolo indissolubile, perché di mogli ne ha avute due, tre o quattro?

Stratagemma n. 17

Se l’avversario ci incalza con una controprova, spesso ci potremo salvare con una sottile distinzione a cui magari prima non abbiamo pensato, se la cosa in questione consente un doppio significato oppure un doppio caso.

Stratagemma n. 18

Se ci accorgiamo che l’avversario ha messo mano a un’argomentazione con cui ci batterà, non dobbiamo consentire che arrivi a portarla a termine, ma dobbiamo interrompere, allontanare o sviare per tempo l’andamento della disputa e portarla su altre questioni: in breve avviare una mutatio controversiae.

Stratagemma n. 19

Se l’avversario ci sollecita esplicitamente a esibire qualcosa contro un determinato punto della sua affermazione, ma noi non abbiamo nulla di adatto, allora dobbiamo svolgere la cosa in maniera assai generale e poi parlare contro tali generalità. Ci viene chiesto di dire perché una determinata ipotesi fisica non è credibile: allora parliamo della illusorietà del sapere umano e ne diamo ogni sorta di esempi.

Stratagemma n. 20

Quando abbiamo richiesto all’avversario le premesse ed egli le ha concesse, non dobbiamo chiedere anche la conclusione che ne consegue, ma tirarla direttamente noi stessi: anzi, anche se manca ancora l’una o l’altra delle premesse, noi la assumiamo come ugualmente concessa e tiriamo la conclusione. La qual cosa poi è un impiego della fallacia non causae ul causae.

 

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Stratagemma n.13

Per fare in modo che l’avversario accetti una tesi, dobbiamo presentare la tesi opposta e lasciare a lui la scelta, avendo l’accortezza di esprimere tale opposto in modo assai stridente, cosicché, se non vuole essere paradossale, egli deve risolversi alla nostra tesi che invece appare molto probabile. Per esempio: egli deve ammettere che uno ha il dovere di fare tutto ciò che gli dice suo padre: allora noi chiediamo: «Bisogna essere in ogni cosa disobbedienti ai genitori oppure obbedienti ai genitori?». Oppure se di qualche cosa si dice «sovente», chiediamo se con «sovente» si intendono pochi casi oppure molti: l’avversario dirà «molti». È come il grigio che accostato al nero si può chiamare bianco, e accostato al bianco si può chiamare nero.

Stratagemma n.14

Un tiro impertinente è quando, dopo che l’avversario ha risposto a molte domande senza favorire la conclusione che abbiamo in mente, si enuncia e si esclama in modo trionfante, come dimostrata, la conclusione che si voleva trarre, sebbene essa non consegua affatto dalle sue risposte. Se l’avversario è timido o sciocco, e se noi abbiamo una buona dose di impertinenza e una buona voce, il tiro può riuscire proprio bene. Questo stratagemma rientra nella fallcia non causae ut causae [inganno tramite assunzione della non-causa come causa]

Stratagemma n.15

Se abbiamo presentato una tesi paradossale e ci troviamo in imbarazzo nel dimostrarla, proponiamo all’accettazione o al rifiuto dell’avversario, come se volessimo trarne la dimostrazione, una tesi sì giusta, ma non del tutto evidente: se egli, sospettando qualcosa, la respinge, allora lo conduciamo ad absurdum e trionfiamo: se invece la accetta, intanto abbiamo detto qualcosa di ragionevole, e poi si vedrà. Oppure introduciamo qui lo stratagemma precedente e affermiamo ora che questo dimostra il nostro paradosso. Per farlo ci vuole la massima impertinenza; ma nella realtà succede: e c’è gente che tutto ciò lo pratica per istinto.

E qui esempi nella comunicazione dei nostri politici ce ne sarebbero in quantità. Credo che in tutti i talk show questi stratagemmi vengano impiegato inconsapevolmente più volte da ciascuno degli ospiti, soprattutto in considerazione del fatto che il pubblico televisivo è piuttosto distratto e usa il mezzo come fonte di distrazione e di evasione.

 

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Stratagemma n.9

Porre le domande non nell’ordine richiesto dalla conclusione che si deve trarre, ma con spostamenti di ogni genere: l’avversario non capisce allora dove si voglia andare a parare e non è in grado di prevenire: ci si può anche servire delle sue risposte per trarne conclusioni diverse, perfino contrarie, a seconda delle risposte. Questo stratagemma è affine al quarto stratagemma in quanto bisogna mascherare il proprio modo di procedere.

Stratagemma n.10

Ci si accorge che l’avversario risponde di proposito negativamente alle domande, perché la risposta affermativa potrebbe essere utilizzata per la nostra tesi. In tal caso bisogna chiedere il contrario della tesi di cui ci si vuole servire come si si volesse la sua approvazione, o almeno sottoporgli ambedue le tesi, in modo che egli non si accorga di quale si vuole che lui affermi.

Stratagemma n.11

Se noi facciamo un’induzione, e l’avversario ci concede i singoli casi attraverso i quali deve essere attuata, non dobbiamo chiedergli se concede anche la verità generale che risulta da questi casi: dobbiamo invece introdurla in seguito come già stabilita e concessa, perché può anche accadere che egli creda di averla concessa, e la stessa impressione avranno anche gli ascoltatori, i quali si ricordano delle molte domande sui casi singoli, che devono pure avere condotto allo scopo.

Stratagemma n.12

Qualora il discorso verta su un concetto generale che non ha alcun nome, ma che deve essere designato tropicamente per mezzo di una similitudine, noi dobbiamo scegliere subito la similitudine in maniera tale che essa sia favorevole alla nostra affermazione. Così, per esempio, in nomi con cui sono designati i due partiti politici in Spagna, servilesliberales, sono stati certamente scelti da questi ultimi.
Il nome protestanti è scelto da questi, e così il nome evangelici; il nome eretici, invece, è scelto dai cattolici.
Vale per i nomi di cose anche quando essi non sono più appropriati: ad esempio, se l’avversario ha proposto un cambiamento, lo si chiami innovazione, perché si tratta di una parola odiosa. Ci dobbiamo comportare in modo contrario se siamo noi ad avanzare una proposta. Nel primo caso si chiami l’opposto «ordine costituito», nel secondo una «zavorra». Ciò che una persona disinteressata e imparziale chiamerebbe «culto» o «pubblica dottrina della fede», uno che vuole parlarne a favore lo chiama «devozione», «pietà», un avversario «bigotteria», «superstizione». In fondo si tratta di una sottile petitio principii: si introduce già nella parola, nella denominazione, ciò che si vuole provare, così da derivarlo poi con un semplice giudizio analitico. Ciò che l’uno chiama «assicurasi della sua persona», «tenere in custodia», il suo avversario lo chiama «imprigionare».
Spesso un oratore tradisce già la sua intenzione nei nomi che dà alle cose. L’uno dice «i religiosi», l’altro «i preti». Fra tutti gli stratagemmi questo è quello che viene adoperato più spesso, istintivamente. Fervore religioso ≡ fanatismo; passo falso o galanteria ≡ adulterio; espressioni equivoche ≡ oscenità; squilibrio ≡ bancarotta; «tramite influenze e conoscenze» ≡ «tramite corruzione e nepotismo»; «sincera riconoscenza» ≡ «buon pagamento».

Alla luce di questo stratagemma, quando sentiamo utilizzare la parola «riforma» dovremmo seriamente interrogarci sul quale iniziativa sta per essere intrapresa. La parola «riforma» ha un’accezione positiva, viene associata più che al concetto di cambiamento a quello di miglioramento. Ma ne siamo proprio sicuri? Sentiamo parlare di «riforma della magistatura», «riforma del sistema carcerario», «riforma della Costituzione». «riforma della pubblica amministrazione», «riforma del sistema del trasporto pubblico locale», ma non è detto che si tratti sempre di miglioramenti.

 

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Proseguendo con la lettura del L’arte di ottenere ragione, cominciamo ad arrivare alle mie preferite. Poi, per qualche giorno, pausa, tanto ho imparato come si fa a programmare la pubblicazione dei post…

Stratagemma n.6

Si fa una petitio principii occulta postulando ciò che si dovrebbe dimostrare: 1) usando un altro nome, ad esempio buon nome al posto di onore, virtù al posto di verginità, e così via; o anche concetti interscambiabili: animali dal sangue rosso al posto di vertebrati; 2) oppure facendo in modo che ci venga concesso in generale ciò che nel caso particolare è controverso, ad esempio: si afferma l’incertezza della medicina postulando l’incertezza di ogni sapere umano; 3) quando vice versa due cose conseguono l’una dall’altra, e si deve dimostrare la prima, postulando la seconda; 4) quando si deve dimostrare l’universale, facendosi ammettere ogni singolare (il contrario del n.2). (Aristotele, Topici, VIII, 11)
Sull’esercizio della dialettica contiene buone regole l’ultimo capitolo dei Topici  di Aristotele.

Stratagemma n.7

Quando la disputa è condotta in modo piuttosto rigoroso e formale e ci si vuole fare intendere molto chiaramente, colui che ha presentato l’affermazione e deve dimostrarla procede contro l’avversario ponendo domande, per concludere la verità dell’affermazione dalle stesse ammissioni dell’avversario. Questo metodo erotematico era particolarmente in uso presso gli antichi (so chiama anche metodo socratico): ad esso si rifà il presente stratagemma e alcuni che seguiranno più avanti. (Completamente e liberamente rielaborato dal capitolo 15 del Liber de elenchis sophisdticis di Aristotele).
Domandare una sola volta e in modo particolareggiato molte cose, così da occultare ciò che in realtà si vuole che venga ammesso. Esporre invece rapidamente la propria argomentazione a partire da ciò che è stato ammesso: così coloro che sono lenti di comprendonio non riescono a seguire esattamente e non si accorgono di eventuali errori o lacune nell’argomentazione.

Credo che questo sia uno dei metodi più utilizzati, consciamente o inconsciamente, dai politici quando si trovano in difficoltà.

Stratagemma n. 8

Suscitare l’ira dell’avversario, perché nell’ira egli non è più in condizione di giudicare rettamente e di percepire il proprio vantaggio. Si provoca la sua ira facendogli apertamente torto, tormentandolo e, in generale, comportandosi in modo sfacciato.

 

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Come preannunciato, ecco i successivi due suggerimenti di Schopenhauer, E qui la faccenda diventa più sottile.

Stratagemma n.4

Quando si vuole trarre una certa conclusione non la si lasci prevedere, ma si faccia in modo che l’avversario ammetta senza accorgersene le premesse una per volta e in ordine sparso, altrimenti tenterà ogni sorta di cavilli; oppure, quando non si è certi che l’avversario le ammetta, si presentino le premesse  di queste premesse, si facciano pre-sillogismi, ci si faccia ammettere le premesse di molti di questi pre-sillogismi senza ordine e confusamente, si occulti dunque il proprio gioco finché non è stato ammesso tutto ciò di cui si ha bisogno. Si arrivi insomma al dunque partendo da lontano. Queste regole le dà Aristotele in Topici, VIII, 1.
Non occorrono esempi.

Stratagemma n.5

Per dimostrare la propria tesi ci si può servire anche di premesse false, e ciò quando l’avversario non ammetterebbe quelle vere, o perché non ne riconosce la verità oppure perché vede che la nostra tesi ne conseguirebbe immediatamente: si prendano allora tesi in sé false ma vere ad hominum, e si argomenti  ex concessis a partire dal modo di pensare dell’avversario. Infatti il vero può conseguire da premesse false, ma mai il falso da premesse vere. Allo stesso modo si possono confutare tesi false dell’avversario per mezzo di altre tesi false, che egli però ritiene vere: infatti si ha a che fare con lui e bisogna servirsi del suo modo di pensare. Per esempio: se egli è seguace di qualche setta alla quale noi non aderiamo, possiamo adoperare contro di lui, come principia, le massime di questa setta. Aristotele, Topici, VIII, 9. (Rientra nel precedente stratagemma).

 

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Avendo la fortuna (?) di vivere in una delle poche città italiane con due squadre di calcio nel massimo campionato, spesso e malvolentieri mi capita di assistere a discussioni, tanto accese quanto interminabili, fra sostenitori dell’una e dell’altra compagine. Come in ogni situazione che scatena le più profonde passioni, ognuno vuole “ottenere ragione” e affina, il più delle volte inconsapevolmente, le armi della dialettica, specialmente quando ha raggiunto il livello massimo di decibel consentitogli dalle corde vocali.

Chi alla fine ottenga o meno ragione, è in questa sede totalmente irrilevante. Ciò che interessa è iniziare a descrivere e analizzare le diverse tecniche che li nostro può utilizzare. E in ciò ci aiuta un filosofo tedesco del XIX secolo, Arthur Schopenhauer (1788-1860) che questo problema se lo era già posto, scrivendo nel 1830-31 un trattatello, mai dato alle stampe, dal titolo L’arte di ottenere ragione. Esposta in trentasei stratagemmi.

Trattandosi di opera filosofica assume per sua natura carattere universalistico. Può quindi essere applicata a svariati ambiti, fra cui quello dell’analisi del comportamento degli esponenti politici, donne e uomini, nel corso dei vari dibattiti televisivi.

Schopenhauer illustra trentasei stratagemmi, corredandoli di esempi. Iniziamo con i primi tre, che lo stesso filosofo ci spiegherà essere collegati. Gli altri seguiranno nei prossimi giorni.

Stratagemma n.1

L’ampliamento. Portare l’affermazione dell’avversario al di fuori dei suoi limiti naturali, interpretarla nella maniera più generale possibile, prenderla nel senso più ampio possibile, ed esagerarla; restringere invece la propria affermazione nel senso più circoscritto possibile e nei limiti più ristretti: perché quanto più un’affermazione diventa generale, tanto più essa presta il fianco agli attacchi. L’antidoto è la precisa formulazione del punctusstatus controversiae.

Esempio 1

Io dissi: «Gli Inglesi sono la prima nazione nel genere drammatico». L’avversario volle tentare una instantia e ribatté: «È noto che nella musica, e di conseguenza anche nell’opera, essi non hanno saputo combinare nulla». Io gli replicai ricordandogli «che la musica non è compresa nel genere drammatico; questo designa solo la tragedia e la commedia»: cosa che egli sapeva molto bene, e quindi tentava solo di generalizzare la mia affermazione in modo che comprendesse tutte le rappresentazioni teatrali, di conseguenza l’opera e la musica, per poi battermi con sicurezza.
Se invece l’espressione da noi usata lo favorisce, si salvi la propria affermazione restringendola oltre la primitiva intenzione.

Esempio 2

A dice: «La pace del 1814 restituì persino a tutte le città anseatiche tedesche la loro indipendenza». B dà la instantia in contrarium cioè che con quella pace Danzica perse l’indipendenza conferitale da Bonaparte.  A si salva così: «Ho detto tutte le città anseatiche tedesche. Danzica era una città anseatica polacca».
Questo stratagemma si trova già in Aristotele, Topici, VIII, 12.

Esempio 3

Lamarck (Philosophie zoologique, [Paris, 1809], vol. 1, p. 203) nega ai polipi ogni sensazione poiché privi di nervi. Ora, però, è certo che essi percepiscono, infatti seguono la luce mentre procedono con la loro tecnica di ramo in ramo. E afferrano la loro preda. Si è perciò supposto che in essi la massa nervosa sia diffusa in ugual misura nella massa dell’intero corpo e, per così dire, vi sia fusa assieme: infatti essi hanno evidentemente percezioni senza avere organi di senso distinti. Poiché ciò ribalta l’ipotesi di Lamarck, egli argomenta dialetticamente così: «Allora tutte le parti del corpo del polipo dovrebbero essere capaci di ogni specie di sensazione e anche di movimento, di volontà, di pensiero: allora il polipo avrebbe in ogni punto del suo corpo tutti gli organi dell’animale più completo: ogni punto potrebbe vedere, annusare, gustare, sentire e così via; anzi, pensare, giudicare, inferire: ogni particella del suo corpo sarebbe un animale completo e il polipo stesso starebbe sopra l’uomo, poiché ogni cellula avrebbe tutte le facoltà che l’uomo ha solo nel suo insieme. Non ci sarebbe inoltre alcun motivo per non estendere quanto si afferma sui polipi anche alla monade, il più imperfetto di tutti gli esseri, e infine anche alle piante, le quali pure vivono, e così via». Con l’uso di tali stratagemmi dialettici uno scrittore tradisce l’intima consapevolezza di avere torto. Poiché si è detto: «Il suo intero corpo è sensibile alla luce, ed è perciò di natura nervosa», egli ne evince che l’intero corpo pensa.

Stratagemma n.2

Usare l’omonimia per estendere l’affermazione presentata anche a ciò che, al di là del nome uguale, poco o nulla ha in comune con la cosa in questione; poi darne una confutazione lampante, e così fingere di avere confutato l’affermazione.
Nota: synonyma sono due parole indicanti il medesimo concetto; homonyma due concetti indicati dalla medesima parola (vedi Aristotele, Topici, I, 13). Profondo, tagliente, alto, usati ora per corpi ora per suoni sono homonyma. Sincero e leale sono synonyma.
Questo stratagemma può essere considerato identico al sofisma ex homonymia: tuttavia il sofisma palese dell’omonimia non trarrà seriamente in inganno.

Omne lumen potest extingui;
Intellectus est lumen;
Intellectus potest extingui.

[Ogni lume può essere spento; l’intelletto è un lume; l’intelletto può essere spento.]

Qui si nota subito che ci sono quattro terminilumen in senso proprio e lumen inteso in senso figurato. Ma nei casi sottili questo sofisma inganna certamente, soprattutto dove i concetti indicati dalla medesima espressione sono affini e si sovrappongono l’uno all’altro.

A questo punto mi permetto l’ardire di chiosare Schopenhauer. Mi sembra che una parola, usata frequentemente nella polemica politica, con le caratteristiche idonee a portare l’ascoltatore al falso sillogismo, sia “regime”. Regime, tecnicamente, significa “sistema politico”, ma, poiché è stata così tante volte utilizzata insieme all’aggettivo “fascista”, è andata ad assumere il doppio significato di “dittatura”.

Esempio 1

(I casi inventati appositamente non sono abbastanza sottili da essere ingannevoli: bisogna dunque trarli dalla propria esperienza concreta. L’ottimo sarebbe poter distinguere ogni stratagemma con un nome conciso e calzante, a cui si potrebbe ricorrere, al momento opportuno, per respingere in un batter d’occhio l’uso di questo o quello stratagemma).
A: «Lei non è ancora iniziato ai misteri della filosofia kantiana».
B: «Ah, dove ci sono misteri, io non voglio saperne nulla».

Esempio 2

Io biasimavo il principio d’onore, giudicando incomprensibile che chi subisce un’offesa perda l’onore a meno che non la ricambi con un’offesa maggiore o che non lavi l’onta col il sangue, quello del nemico o il proprio; come ragione addussi che il vero onore non può essere ferito da ciò che si subisce, ma soltanto da ciò che si fa; perché a chiunque di noi può succedere di tutto. L’avversario attaccò direttamente la mia ragione: egli mi dimostrò in modo lampante che se si calunniasse un commerciante dicendo che imbroglia o commette illegalità, o che è negligente nel suo mestiere, questo sarebbe un attacco al suo onore che qui verrebbe ferito unicamente per ciò che egli subisce, e che egli potrebbe ripristinare soltanto facendo punire tale calunniatore o costringendolo a smentire l’accusa.
Qui egli scambiò, dunque, per l’omonimia, l’onore civile, che si chiama altrimenti buon nome e che viene offeso col discredito, con il concetto di onore cavalleresco, chiamato anche point d’honneur e che viene offeso con le ingiurie. E poiché un attacco al primo non può essere trascurato, ma deve essere respinto con la pubblica confutazione, con lo stesso diritto anche un attacco al secondo non dovrebbe rimanere ignorato, ma dovrebbe essere respinto con un’ingiuria più forte e con il duello. Dunque: una confusione di due cose essenzialmente diverse favorita dall’omonimia della parola onore: e così l’omonimia dà origine a una mutatio controversiae.

Una parola di stretta attualità politica, dal doppio significato, è li participio passato del verbo “interdire”. Per evitare conseguenze spiacevoli, sempre meglio contestualizzare…

Stratagemma n.3

Prendere l’affermazione presentata in modo relativo, relative, come se fosse presentata universalmente, simpliciterabsolute, o almeno intenderla sotto tutt’altro aspetto e confutarla poi in in questo secondo senso.

Qui ci sarebbero delle parole in greco che non posso inserire dato che non dispongo di tutti i caratteri necessari (capirle, quello mai, ho fatto lo scientifico).

L’esempio di Aristotele è: il moro è nero, ma quanto ai denti è bianco: dunque egli è allo stesso tempo nero e non nero. È un esempio inventato, che non ingannerebbe sul serio nessuno: prendiamone invece uno dall’esperienza concreta.

Esempio

In una conversazione di filosofia ammisi che il mio sistema difende e loda i quietisti. Poco dopo il discorso cadde su Hegel, e io affermai che la maggior parte delle cose da lui scritte sono insensate o, almeno, che molti passi dei suoi scritti sono tali che l’autore butta lì le parole e il senso deve metterlo il lettore. L’avversario non si avventurò a confutare ciò ad rem, ma si contentò di proporre quest’argumentum ad hominem: io avevo appena lodato i quietisti, e anch’essi avevano scritto molte cose insensate.
Ammisi questo fatto, ma corressi l’avversario dicendo che non lodo i quietisti come filosofi o scrittori, cioè non per le loro imprese teoretiche, ma soltanto come uomini, per il loro agire, solo dal punto di vista pratico: nel caso di Hegel invece si parla di imprese teoretiche. L’attacco venne così parato.

A questo punto, Schopenhauer ci dice che i primi tre stratagemmi sono affini, poiché “hanno in comune il fatto che l’avversario parla in realtà di qualcosa d’altro rispetto a ciò che viene affermato”.

[…] si incorrerebbe dunque in una ignoratio elenchi [ignoranza della confutazione] se ci si facesse liquidare da tali stratagemmi. Infatti, in tutti gli esempi presentati quello che dice l’avversario è vero: non è però in contraddizione effettiva ma solo apparente con la tesi; chi è da lui attaccato quindi nega la consequenzialità della sua conclusione: cioè che dalla verità della sua tesi discenda la falsità della nostra. Si tratta dunque di una confutazione diretta della sua confutazione per negationem consequantiae.
Non ammettere premesse vere poiché se ne prevede la conseguenza. Come antidoto dunque i due seguenti mezzi, le regole 4 e 5.

 

Come ottenere ragione in 38 mosse – 1-3
Come ottenere ragione in 38 mosse – 4-5
Come ottenere ragione in 38 mosse – 6-8
Come ottenere ragione in 38 mosse – 9-12
Come ottenere ragione in 38 mosse – 13-15
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Come ottenere ragione in 38 mosse – 38

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