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Posts Tagged ‘Banca Centrale Europea’

Roberto Musacchio, L’Altra Europa con Tispras, 2 ottobre 2015

Alfiero Grandi nell’articolo “Crisi dell’Unione Europea e sinistra” pone giustamente l’esigenza che la sinistra avanzi una propria proposta di ripensamento complessivo della UE. Ne offre l’occasione, scrive, l’autorevolezza con cui Mario Draghi pone la questione che ci si doti di un vero ministro dell’economia dell’area euro. Ciò consentirebbe di profittare dello spazio di riflessione che si è aperto anche in settori conservatori e di provarsi a modificare il quadro, compreso quello dei trattati, facendo perno sostanzialmente sull’area euro per un cambiamento politico di fondo. Chiedo scusa a Grandi per la sommarietà e forse l’imprecisione con cui ho riassunto la sua proposta.

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di Stefano Fassina, Yanis Varoufakis, Oskar Lafontaine, Jean-Luc Mélenchon

Stefano Fassina

Il 13 luglio scorso, il governo democraticamente eletto di Alexis Tsipras è stato messo in ginocchio dall’Unione europea. “L”accordo” del 13 luglio è stato in realtà un coup d’état, messo in atto attraverso la chiusura delle banche greche indotta dalla Banca centrale europea, con la minaccia che non sarebbero state riaperte finché il governo non avesse accettato una nuova versione di quel fallimentare programma. Il motivo? L’Europa ufficiale non poteva tollerare che un popolo prostrato dalle sue politiche di austerità auto-distruttiva osasse eleggere un governo determinato a dire “No!”.

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Enzo Pennetta, Critica scientifica, 6 agosto 2015

Generale di Corpo d’Armata, capo di Stato MAggiore della NATO, capo del Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo. Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari, su CS parla delle crisi attuali ma non solo. E dice cose molto importanti

Gen. Mini, nel  suo libro “La guerra spiegata a…” afferma che non esistono guerre limitate,  o meglio  che una potenza che si impegna in una guerra limitata ne prepara in realtà una totale. Nell’attuale situazione di conflittualità diffusa, che sembra seguire una specie di linea di faglia che va dall’Ucraina allo Yemen passando per  Siria e Irak, dobbiamo quindi aspettarci lo scoppio di un conflitto totale?
La categoria delle guerre limitate, trattata  dallo stesso Clausewitz, intendeva comprendere i conflitti dagli scopi limitati e quindi dalla limitazione degli strumenti e delle risorse da impiegare. Doveva essere il minimo per conseguire con la guerra degli scopi politici. E la guerra era una prosecuzione della politica. Erano comunque evidenti i rischi che il conflitto potesse degenerare ed ampliarsi sia in relazione alle reazioni dell’avversario sia in relazione agli appetiti bellici, che vengono sempre mangiando. Con un’accorta gestione delle alleanze e delle neutralità, un conflitto poteva essere limitato nella parte operativa e comunque avere un significato politico più ampio. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti.
La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla e chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali. Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità” tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il Pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla seconda guerra mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”. Dobbiamo quindi essere felici di questa “pace annunciata”. O no?
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Viviamo in un’epoca di dualismi economici, di profonde divisioni fra Nord e Sud su più livelli, Europa-Nord/Africa-Sud, Nord Europa/Sud Europa, Nord Italia/Sud Italia. E potremmo andare avanti così fino a estendere il ragionamento al rapporto fra i centri cittadini e le periferie. In altra epoca e con altra terminologia si sarebbe parlato di sfruttamento: delle risorse naturali, della forza lavoro, ecc.

Per Krugman si tratta di un tema ricorrente. Ricordo infatti un bell’articolo, tradotto in italiano sul sito della voce.info, intitolato La disuguaglianza che arriva dal commercio. Il tema della disuguaglianza e della distribuzione del reddito è già al centro del dibattito accademico, rilanciato in maniera clamorosa dal successo del libro di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo. Si tratta ora di portarlo con forza al centro del dibattito politico.

Paul Krugman, premio Nobel per l’economia 2008

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MicroMega, 16 luglio 2015

Per l’economista la debacle greca insegna che bisogna mettere da parte la retorica europeista e globalista e predisporre una visione alternativa, un “nuovo internazionalismo del lavoro”. E sulla Grexit replica al premier ellenico che ha denunciato il mancato aiuto di Stati Uniti, Russia e Cina: “Se vero, significa che i grandi attori del mondo hanno scelto di non interferire più di tanto negli affari europei, lasceranno che l’Unione monetaria imploda per le sue contraddizioni interne”.

intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena
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Yanis Varoufakis

di Yanis Varoufakis

Il dramma finanziario della Grecia ha dominato i titoli dei giornali per cinque anni per un motivo: l’ostinato rifiuto dei nostri creditori a offrire un’essenziale riduzione del debito. Perché, contro il buon senso, contro il verdetto del FMI e contro le pratiche quotidiane dei banchieri di fronte a debitori sovraccaricati, resistono a una ristrutturazione del debito? La risposta non può essere trovata in economia perché risiede nelle profondità della labirintica politica dell’Europa.

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La vittoria del NO al referendum greco non rappresenta certo la soluzione di tutti i problemi, ma apre alcuni possibili e interessanti scenari. Non ho certo la pretesa di saperli illustrare tutti e neppure quella di essere assolutamente imparziale (vivo, sono partigiano…). Voglio però cercare di cimentarmi con quelle che potrebbero essere le future scelte e le loro implicazioni.

Il voto greco è stato un voto per l’Europa, non contro l’Europa, nonostante il tentativo di farlo passare come un plebiscito fra euro e dracma. I greci hanno sostanzialmente ribadito a gran voce di voler rimanere nell’Unione Europea e nell’area dell’euro, ma hanno contestato modi e forme di questa loro permanenza. Chi la pensasse in maniera diversa, evidentemente non ha capito nulla dello spirito referendario. Ma i greci hanno anche dichiarato, implicitamente, a quale modello di Europa vogliono appartenere: all’Europa dei popoli, non a quella delle banche e delle finanziarie.

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Marco Pasciuti, Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2015

L’economista della Chicago Booth School of Business punta il dito contro la Banca Centrale Europea: “I principali istituti greci hanno passato un test di solvibilità condotto dall’Ue. Perché allora la Bce non fornisce loro liquidità illimitata? Perché la fornitura di liquidità di emergenza è stata centellinata di giorno in giorno e poi bloccata? In sostanza, Francoforte tiene la Grecia appesa a un filo”. Così Atene, che “non vuole uscire dall’euro, viene quasi forzata a farlo”

Luigi Zingales

Luigi Zingales, economista presso la Chicago Booth School of Business. L’Ue ha fatto tutto quanto era in suo potere per salvare la Grecia?
“No, nel gestire la crisi si è anche tenuto conto del precedente che si andava creando”.

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Intervista a Barbara Spinelli di Giampiero Calapà, Il Fatto Quotidiano, 1° luglio 2015

«Inammissibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

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Barbara Spinelli ed Étienne Balibar, La Repubblica, 29 giugno 2015

CARO direttore, chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un’ennesima terapia dell’austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil.

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Jacopo Rosatelli, Il Manifesto, 14 marzo 2015

Il ministro delle finanze greco da Cernobbio propone un’alternativa al Quantitative easing di Draghi. La stampa tedesca lo attacca: è isolato, prossimo alle dimissioni. Da Atene la smentita

Il con­te­sto è di quelli che con­tano: il Forum Ambro­setti di Cer­nob­bio, sul Lago di Como. E il pro­ta­go­ni­sta, l’uomo del momento: il mini­stro greco delle finanze Yanis Varou­fa­kis, nemico pub­blico numero uno per il governo tede­sco e gran parte dell’establishment politico-economico euro­peo. Anche que­sta volta il vul­ca­nico eco­no­mi­sta mar­xi­sta ha con­qui­stato la scena, lan­ciando di fronte alla sele­zio­nata pla­tea di Villa d’Este una pro­po­sta desti­nata a fare discu­tere: un «piano Mer­kel» di inve­sti­menti pub­blici per favo­rire dav­vero la cre­scita e farla finita con l’austerità.

Yanis Varoufais, ministri delle Finanze Grecia

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controlacrisi.org, 9 marzo 2015

Alexis Tsipras si presenta così poco appariscente nel suo enorme ufficio nella Maximos Mansion di Atene, e molto rilassato. Il nuovo quarantetreenne primo ministro di sinistra della Grecia, una spina nel fianco dei leader tedeschi a Berlino, ha una stretta di mano morbiInviato da iPad

Tsipras vuole spiegare se stesso e le politiche del suo governo, dice, aggiungendo che spera di rispondere apertamente e onestamente alle domande in modo che la gente in Germania lo capisca meglio. Ora, dice, è il momento ideale per una tale discussione, dopo i negoziati con Bruxelles e poco prima che Atene presenti lunedì i suoi nuovi progetti di riforma ai ministri delle finanze dell’Unione europea.

Il primo ministro ci ha dato un’ora per l’intervista. Parla Greco spiegando i suoi piani con una voce profonda, ma tranquilla, anche ridendo di tanto in tanto quando appoggiandosi all’indietro comodamente. La sua fiducia in se stesso non appare arrogante, sembra invece essere radicata nella sua ferma convinzione che la sua posizione è quella giusta. Egli sa, dice, che la vita è piena di compromessi e che i compromessi sono anche di vitale importanza per la cooperazione del suo paese con l’Unione europea. “Dobbiamo lasciare dietro di noi ogni genere di disastri”, dice Tsipras. “Anche per questo ho voluto parlare con lei.”

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Pavlos Nerantzis, Il Manifesto, 7 marzo 2015

La mancanza di liquidità si da sentire, il rischio default esiste

Dif­fi­cil­mente ci sarà un accordo alla riu­nione dell’Eurogruppo di domani a Bru­xel­les. Il nego­ziato tec­nico tra Varou­fa­kis e i «18» per il pac­chetto delle riforme ad Atene era fino all’ ultimo in alto mare, che vuol dire blocco dei 7 miliardi di euro neces­sari a Tsi­pras per far fronte ai suoi «doveri» nei con­fronti dei cre­di­tori inter­na­zio­nali. Ma anche se ci fosse un deal sfor­zato all’Eurogruppo, i part­ner non hanno inten­zione di dare tempo e spa­zio ad Atene. Nono­stante l’accordo otte­nuto all’Eurogruppo del 20 feb­braio, i part­ner vor­reb­bero che Atene rispet­tasse le regole, ovvero che Tsi­pras dimen­ti­casse le sue pro­messe elet­to­rali, e pren­desse delle misure simili a quelle appli­cate dai governi pre­ce­denti, una nuova austerity.

Yanis Varoufakis e Alexis Tsipras

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Barbara Spinelli, Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2015

Barbara Spinelli

Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l’adozione di lì a poco dell’euro è significativa.

La moneta unica nasce alla fine degli anni ’90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d’origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell’euro segnano l’avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.

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Martin Wolf

Martin Wolf è un giornalista economico inglese, fra i più autorevoli sulla scena internazionale. Scrive per il Financial Times e i suoi articoli sono tradotti e pubblicati in italiano dal Sole 24 Ore.

Penna brillante e autore dotato di umorismo (britannico, ovviamene) è da sempre un fustigatore delle scelte sbagliate dell’Europa e feroce oppositore dell’euro. Com’è prevedibile, abitualmente non risparmia i suoi strali ai politici specie quando si esprimono impropriamente in campo economico.

Martin Wolf, Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2015

A volte, la cosa giusta da fare è la cosa saggia da fare. È così oggi per la Grecia. Se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell’Eurozona. Creerebbe delle difficoltà, ma non tante quante ne creerebbe gettare la Grecia in pasto ai lupi. Tuttavia, raggiungere un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi malauguratamente impossibile: per questo chi pensa che la crisi dell’Eurozona sia finita si sbaglia.

Nessuno può essere sorpreso della vittoria di Syriza in Grecia. La «ripresa» del Paese ellenico è fatta di una disoccupazione al 26 per cento e di una disoccupazione giovanile oltre il 50. Inoltre, il prodotto interno lordo ha perso il 26 per cento rispetto al suo massimo antecrisi. Ma il Pil è un parametro particolarmente inappropriato per dare conto della riduzione del benessere economico, in questo caso. Il saldo delle partite correnti nel terzo trimestre del 2008 era attestato su un -15 per cento del Pil, ma dalla seconda metà del 2013 è in attivo: questo significa che la spesa dei greci per beni e servizi in realtà è calata di almeno il 40 per cento.

Di fronte a una catastrofe del genere, non c’è davvero da stupirsi che gli elettori abbiano rigettato il precedente Governo e le politiche che ha portato avanti (un po’ controvoglia) per conto dei creditori. Come ha detto Alexis Tsipras, il nuovo primo ministro, l’Europa è fondata sul principio della democrazia. Il popolo greco ha parlato. Le autorità costituite devono come minimo ascoltare. Eppure tutto quello che si sente in giro lascia intendere che le richieste per un nuovo accordo su debito e austerità saranno respinte senza neanche pensarci su. Dietro a questa reazione c’è una discreta quantità di stupidaggini moralisteggianti. Due in particolare ostacolano le speranze di una risposta ragionevole alle richieste greche.

La prima stupidaggine è che i greci hanno preso in prestito i soldi e perciò sono tenuti a ridarli indietro, a qualunque costo. Era più o meno lo stesso ragionamento alla base del carcere per debiti. La verità però è un’altra: i creditori hanno la responsabilità morale di prestare soldi con accortezza. Se non vagliano in modo accurato la solvibilità dei loro debitori, si meritano quello che gli succederà. Nel caso della Grecia, le dimensioni dei disavanzi con l’estero, in particolare, erano evidenti. Ed era evidente anche il modo in cui era gestito lo Stato greco.

La seconda stupidaggine è sostenere che dal momento in cui è esplosa la crisi il resto dell’Eurozona sarebbe stato straordinariamente generoso con la Grecia. Anche questo è falso. È vero che i prestiti erogati dall’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del Pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo, pari al 175 per cento del Pil. Ma la quasi totalità di questi soldi non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del Governo e delle banche del Paese ellenico. Solo l’11 per cento dei prestiti è andato a finanziare direttamente attività del Governo. Un altro 16 per cento è andato a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo. Sarebbe stato più onesto soccorrere direttamente i creditori, ma era troppo imbarazzante.

Come i greci fanno notare, l’abbuono del debito è una pratica normale. La Germania, che nel XX secolo è andata più volte in default sia per quanto riguarda il debito interno sia per quanto riguarda quello con l’estero, ne ha beneficiato più volte. Quello che non può essere pagato non sarà pagato. L’idea che i greci debbano accumulare grosse eccedenze di bilancio per una generazione per restituire il denaro che i Governi creditori hanno usato per salvare i creditori privati dalla loro sconsideratezza è un’assurdità.

Che cosa bisogna fare allora? Si può scegliere tra la cosa giusta, la cosa comoda e la cosa pericolosa.

Come sostiene Reza Moghadam, ex direttore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, «l’Europa dovrebbe offrire un sostanzioso alleggerimento del debito, dimezzando il debito della Grecia e dimezzando il saldo di bilancio richiesto, in cambio di riforme». Una cosa del genere, aggiunge, sarebbe coerente con l’obbiettivo di un debito notevolmente al di sotto del 110 per cento del Pil, concordato dai ministri dell’Eurozona nel 2012. Ma queste riduzioni non dovrebbero essere effettuate in modo incondizionato. L’approccio migliore è quello delineato dall’iniziativa sui «Paesi poveri pesantemente indebitati» avviata nel 1996 dal Fmi e dalla Banca mondiale. Secondo i criteri fissati da questo programma, l’alleggerimento del debito viene accordato solo dopo che il Paese debitore ha soddisfatto criteri di riforma ben precisi. Un programma del genere sarebbe di grande beneficio per la Grecia, che ha bisogno di una modernizzazione politica ed economica.

L’approccio politicamente comodo è continuare a «estendere e pretendere». Sicuramente ci sono modi per rimandare ulteriormente il giorno della resa dei conti. Ci sono anche modi per ridurre il valore attualizzato degli interessi e dei rimborsi senza ridurre il valore nominale. Tutto questo consentirebbe all’Eurozona di evitare di confrontarsi con le tesi di chi sosterrebbe l’opportunità morale di un alleggerimento del debito per altri Paesi colpiti dalla crisi, in particolare l’Irlanda. Ma un approccio del genere non è in grado di produrre quel risultato onesto e trasparente di cui c’è drammaticamente bisogno.

L’approccio pericoloso è spingere le Grecia verso il default, perché una cosa del genere probabilmente creerebbe una situazione in cui la Banca centrale europea non si sentirebbe più nelle condizioni di operare come Banca centrale della Grecia, e questo obbligherebbe il Paese ellenico a uscire dall’euro. Il risultato per la Grecia sarebbe senza dubbio catastrofico nel breve termine; secondo me potrebbe addirittura bloccare qualsiasi progresso verso la modernità per una generazione. Ma il danno non lo subirebbe solo la Grecia: l’uscita di Atene dimostrerebbe che l’unione monetaria europea non è irreversibile, ma soltanto una parità monetaria particolarmente rigida. Sarebbe il peggio dei due mondi: la rigidità dei cambi fissi senza la credibilità di un’unione monetaria. In ogni crisi futura, ci si chiederebbe se è arrivato il «momento dell’uscita». Il risultato sarebbe un’instabilità cronica.

Creare l’Eurozona è la seconda peggiore idea che i suoi membri abbiano mai avuto, ma la peggiore in assoluto sarebbe smantellare l’Eurozona. Eppure è questo lo scenario che potrebbe realizzarsi se spingessimo la Grecia verso l’abbandono della moneta unica. La via giusta è riconoscere la validità di un alleggerimento del debito condizionato alla realizzazione di riforme verificabili. Un politico rigetterebbe questa idea, uno statista la farebbe propria. Sapremo presto se abbiamo a che fare con politici o con statisti.

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Giovanna Faggionato, Lettera 43, 7 febbraio 2015

Salviamo la Grecia, salviamo l’Europa.

Oltre 300 economisti e studiosi tra le due sponde dell’Atlantico hanno sottoscritto un appello ai governi Ue [qui l’appello tradotto] per evitare il default di Atene e la lenta agonia dell’intero Vecchio continente.

La lettera è stata pubblicata il 6 febbraio dal giornale di inchiesta franceseMediapart e dice che l’esecutivo ellenico «ha ragione a esigere un annullamento del debito» perché è «insostenibile e non sarà mai rimborsato qualsiasi cosa succeda».

Di conseguenza, non c’è in realtà alcuna perdita per gli Stati europei e per i loro contribuenti.

«SPIEGATE LA REALTÀ AI CITTADINI». «Chiediamo ai creditori di cogliere quest’occasione e di esporre chiaramente e onestamente questi fatti alle popolazioni», scrivono professori statunitensi e tedeschi, danesi e francesi, spagnoli e svizzeri.

«Una politica di minacce, di ultimatum, di ostinazione e di ricatti significherebbe agli occhi di tutti il fallimento morale politico ed economico del progetto europeo».

Tra i firmatari figura anche il direttore dell’istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Giovanni Dosi, già vice presidente della società degli economisti italiani e condirettore della task force sulla politica industriale della Columbia university dove ha collaborato a lungo con Joseph Stiglitz.

«L’ITALIA VINCE SE VINCE TSIPRAS». A Lettera43.it il professore di Economia politica e commendatore al merito della Repubblica spiega la sua scelta: «Finalmente c’è un Paese nell’Unione che dice che il Re è nudo, che le politiche di austerità sono fallite e che la Grecia non riuscirà mai a ripagare questo debito».

Il problema secondo l’economista non sono i mercati, è la politica. E una cosa per lui è chiara: «L’Italia vince se vince Tsipras».

Giovanni Dosi

DOMANDA. Perché l’Italia dovrebbe difendere la posizione della Grecia?
RISPOSTA. Perché non siamo in una situazione molto differente, anche se ovviamente siamo solvibili. L’Italia deve puntare su Tsipras e Varoufakis, per se stessa e per l’Europa.

D. Secondo i calcoli di Bloomberg l’Italia è esposta per 40 miliardi, ogni cittadino italiano perderebbe 623 euro.
R. I 600 euro sono assolutamente una sciocchezza. Il nostro contributo al prestito è virtuale. Se i greci non ripagano il prestito, noi scriveremo sul bilancio della Banca d’Italia una perdita. E punto a capo. C’è questa idea che i Paesi siano come una drogheria che se fa un debito deve pagarlo e se non lo paga deve pignorare la motocicletta. L’idea che ci sia un isomorfismo tra Stati e attori di mercato non è reale.

D. Ma Standard & Poor’s ha già tagliato il rating ellenico: non c’è un problema di credibilità sul mercato?
R. Il mercato non è unico, è fatto di tanti agenti economici che cercano di guadagnare in base alle loro aspettative su quello che la politica farà. E poi la Grecia attualmente ha un avanzo primario. Se non dovesse pagare gli interessi sul debito, non ha nemmeno bisogno di rivolgersi al mercato.

D. Però le banche elleniche rischierebbero la fuga di capitali e il crollo in Borsa…
R. Se la Bce autorizza la banca centrale greca a stampare euro, come può fare, la cosa non è drammatica per la Grecia. Anzi.

D. La Bce non sembra accondiscendente.
R. Draghi ha fatto quella mossa perché era obbligato da precedenti trattati a farla. Però l’ha fatto secondo me soprattutto per fare la voce grossa e dire ai tedeschi: «Vedi che stiamo facendo qualcosa».

D. E se il board della Bce non l’autorizza?
R. Se non l’autorizza allora diventa inevitabile la loro nazionalizzazione.

D. E cosa succederebbe?
R. Alla fine degli Anni 90 un governo svedese di centrodestra ha nazionalizzato le banche dopo una crisi immobiliare. E non se ne è quasi accorto nessuno. I contribuenti non hanno pagato nessun costo. Naturalmente c’è un costo per gli azionisti e i proprietari perchè si ritroverebbero con una bad bank. Il governo nazionalizzerebbe i depositi e lascerebbe il cerino in mano ai banchieri. La cosa devo dire non mi provoca commozione.

D. Quindi in sostanza la Bce c’entra poco, la partita è tutta nelle mani dei Paesi Ue?
R. Esatto. Il rischio grosso è se si costringe a ripagare le tranche del debito da qui a luglio. Allora si andrebbe verso il default.

D. Quali sono le alternative valide per lei?
R. Ci sono varie opzioni: una è la ristrutturazione, cioè una moratoria del debito e un allungamento degli interessi, l’altra è trasformare il debito attuale in perpetuo: un’idea eccellente. Entrambi sarebbero un buon accordo per tutta Europa.

DSignifica che non rimborsano il prestito, ma pagano gli interessi: con questa opzione l’Italia ci guadagnerebbe più di oggi?
R. L’Italia ci guadagna o ci perde se l’Europa fa politiche espansive o no. L’Italia ci guadagna se potesse anche lei trasformare il suo debito in debito perpetuo con interessi legati alla crescita. E anche la Spagna, il Portogallo e la Francia.

D. Il governo Renzi sembra tiepido però.
R. È troppo supino alla Germania e alla Commissione europea.

D. Voi dite che bisogna rispettare il voto della Grecia, ma non bisogna rispettare anche il voto tedesco, olandese o finlandese?
R. Guardi, il punto è che la struttura dell’Europa è profondamente non funzionale, l’unica possibilità di sopravvivenza di un’economia comune è avere un bilancio comune, un governo che spende che tassa. Si parla sempre di Fiscal Compact ed è una citazione del Fiscal Compact degli Stati Uniti di inizio 800.

D. Quindi?
R. La prima parte prevedeva regole ferree per il bilancio, ma ce n’era una seconda di cui non si parla mai che diceva che il governo centrale si prendeva carico dei debiti dei diversi Stati.

D. Difficile proporlo ora.
R. Naturalmente questo sarebbe l’ideale, certo farebbe sobbalzare sulla sedia la Merkel, ma allora ci sarebbero trasferimenti dalle regioni più ricche a quelle più povere, come avviene in Italia tra Nord e Sud.

D. Nel Sud Italia la politica degli aiuti non ha portato sviluppo, rimane il problema delle riforme.
R. Che bisogna fare le riforme non è in discussione, il problema è di quali riforme parliamo. Se vogliamo licenziare, tagliare il salario agli operai e rendere il mercato del lavoro flessibile perché così l’economia riparte, quella è un’emerita stronzata. Se le riforme vuol dire rendere l’amministrazione pubblica efficiente, combattere l’evasione fiscale, allora sì.

D. Non pensa che firmare un patto sulla lotta all’evasione e la corruzione non dà sicurezza sui risultati?
R. O mandiamo i poliziotti tedeschi a fare l’accertamento fiscale, ma non solo in Grecia, anche in Italia, o è necessario un ceto politico serio.

D. E la classe dirigente greca è una delle più corrotte d’Europa.
R. Infatti con Tsipras la classe dirigente è cambiata. Almeno speriamo. Sembra che Tsipras le voglia far pagare davvero le tasse, non per fare un favore ai tedeschi, ma perché è una cosa giusta e progressiva da fare per i greci.

D. Cosa rischia la Germania?
R. Rischia di far esplodere tutto il sistema euro e se esplode anche la Germania starà male con un super marco rivalutatissimo.

DPerché allora continuano su questa linea?
R. Me lo sono chiesto tante volte. Un po’ pesano gli interessi dell’establishement bancario, ma io credo che ci sia una componente di ottusa stupidità e di fanatismo. Non si dimentichi che i tedeschi lo hanno già fatto a se stessi di infliggersi una cura da cavallo, talmente forte che ha portato al potere Hitler.

D. Non sono gli unici però a insistere per il rigore.
R. Certo. Questo fanatismo è seguito anche da economisti italiani. E il paradosso è che si sono spostati molto più a destra dei loro colleghi americani con cui hanno studiato. Negli Stati Uniti hanno capito che l’austerity è un fallimento.

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Alessandro Visalli, Tempo Fertile, 5 febbraio 2015

Joseph Stiglitz

Interessante intervento di Joseph Stiglitz, su Project Syndacate che ricorda come già all’inizio della crisi dell’Euro, la previsione degli economisti “keynesiani” era che l’austerità imposta alla Grecia ed agli altri paesi in crisi sarebbe fallita. Avrebbe fatalmente soffocato la crescita ed aumentato la disoccupazione (senza peraltro migliorare il rapporto debito/PIL). Il rapporto, infatti, dipende dal PIL tanto quanto dal debito; inoltre la contrazione economica fa salire la spesa (per effetto degli ammortizzatori) e contrae il gettito fiscale.

Ma queste cose sono ormai più che ovvie. Solo chi, presso la Commissione Europea, la BCE e alcune università (diciamo dalle parti di Chicago) credeva nella “austerità espansiva” poteva immaginare che la contrazione selvaggia della spesa pubblica potesse avviare una ondata di investimenti “fiduciari”. Non è successo perché non poteva succedere.

Persino, sottolinea Stiglitz, il FMI alla fine ha confermato che la contrazione ha creato (ma che strano) … contrazione.

Altri test sono superflui dopo cinque anni di applicazioni e conferme. La cosa non funziona perché non può funzionare. Sicuramente non in un’economia aperta.

Del resto l’austerità in condizioni simili ha fallito sempre: la prima volta sotto Herbert Hoover nella Grande Depressione, poi nei “programmi” (indimenticabile il libro del nobel americano su queste vicende) del FMI durante gli anni del “Washington Consensus” imposti all’est asiatico ed all’America latina. Politiche che guardavano il mondo dal lato di chi stacca le cedole e vuole assicurarsi di continuare a farlo.

Sapendo questo “quando la Grecia si è messa nei guai, è stato provato di  nuovo”. Dopo il salvataggio dei creditori la Grecia è riuscita a creare l’avanzo primario necessario per pagare gli interessi sul debito contratto. Però questo ha avuto un prezzo: “la contrazione della spesa pubblica è stata prevedibilmente devastante: 25% di disoccupazione, un calo del 22% del PIL dal 2009, e un aumento del 35% del rapporto debito-PIL”.

Un disastro epocale sul quale, con la schiacciante vittoria elettorale anti-austerity del partito Syriza, gli elettori greci hanno dichiarato di aver avuto abbastanza.

Che si deve fare? Si chiede Stiglitz. Intanto chiarire che non è colpa della Grecia, le stesse ricette sono state applicate in Spagna, che aveva surplus e debito pubblico basso prima della crisi ed è andata in una profonda depressione e deflazione.

Non servono riforme strutturali all’interno della Grecia e della Spagna ma “una riforma strutturale del design della zona euro e di un ripensamento fondamentale dei quadri politici che hanno portato ad una spettacolarmente cattiva performance dell’Unione Monetaria”.

Il problema della Grecia è più ampio, il mondo intero ha bisogno di uno schema di ristrutturazione del debito. Del debito eccessivo che ha creato la crisi del 2008, e quelle orientali del 1990, come la crisi dell’America Latina nel 1980. La cosa viene da lontano (e fa capo alla finanziarizzazione spinta che il crollo degli equilibri degli anni settanta ha portato nel mondo). Tutto ciò “continua a causare indicibili sofferenze negli Stati Uniti, dove milioni di proprietari di case hanno perso le loro case, e ora minaccia altri milioni in Polonia e altrove che hanno preso prestiti in franchi svizzeri”.

Il nodo è che “data la quantità di disagio causata da un debito eccessivo, ci si potrebbe anche chiedere perché gli individui e le nazioni si sono più volte messi in questa situazione. Dopo tutto, i debiti sono contratti – cioè, con accordi volontari – così i creditori sono altrettanto responsabili per loro come debitori. In realtà, i creditori probabilmente sono più responsabili: in genere, sono sofisticate istituzioni finanziarie, mentre i mutuatari spesso sono molto meno in sintonia con vicende di mercato e dei rischi associati ai diversi accordi contrattuali. Sappiamo, infatti, che le banche statunitensi hanno in realtà predato i loro debitori, approfittando della loro mancanza di sofisticazione finanziaria”.

Ogni paese avanzato si è reso conto che il capitalismo richiede che gli individui possano avere “nuovi inizi” per continuare a produrre. Come si è visto la prigione per debiti del XIX secolo era un danno per tutti e non una dissuasione. Normalmente non si prendono prestiti per fallire. Si fallisce perché condizioni avverse si verificano (e spesso senza colpa). La prigione distrugge il lavoro dell’individuo e non garantisce alcun rimborso. Compresa questa cosa si è capito anche che il punto è fornire incentivi migliori per garantire che i prestiti siano prudenti. Il punto è, cioè, più dall’altro lato del contratto di debito: “fornire migliori incentivi per un buon prestito, rendendo i creditori più responsabili per le conseguenze delle loro decisioni”.

Questa soluzione trovava senso, aggiungo, in un’economia in cui il prestito ordinariamente serve per fare investimenti, perché il lavoro è adeguatamente remunerato. Ma nella nuova economia in cui lavorare non basta per mantenere il livello di consumi aggregati necessari per tenere in attività tutti (quindi in cui permane una tendenziale carenza di domanda e conseguentemente una latente sovrapproduzione e disoccupazione) i prestiti sono andati a recuperare il gap e finanziare i consumi. Chiaramente ciò al prezzo, ed a causa, di un progressivo allentamento della responsabilità dei creditori.

Per questa via il cerchio si chiude. Ma non poteva durare e non è durato.

Spostando la cosa a livelli di paesi, nasceva la necessità (che le Nazioni Unite hanno richiesto da anni) di creare una sorta di “legge fallimentare” di tipo moderno che salvasse dall’analoga prigione per debiti (quella in cui è la Grecia, costretta dai creditori internazionali a lavorare solo per pagare gli interessi per molti anni, deperendo): o in altri termini dai “lavori forzati”.

Da prima del 2008 si è tentato (ne parla anche Raghuram Rajan alla fine del suo libro), ma gli Stati Uniti (e la Germania) si sono opposti fermamente. Dice Stiglitz: “forse vogliono reintrodurre le prigioni debitorie per i funzionari dei paesi indebitati (in tal caso, lo spazio può essere l’apertura di Guantanamo Bay)”. Samaras è avvisato.

Questa idea sembra inverosimile, ma risuona tra le righe dei discorsi sull’azzardo morale e la perdita di responsabilità fatta dai creditori. Risuona nel timore che se si lascerà ristrutturare il debito si aprirà una via per contrarlo di nuovo. Cioè per continuare a spendere sopra le righe.

Una sciocchezza. Nessuno potrebbe intenzionalmente voler attraversare l’inferno Greco solo per fare alla fine un “giro libero” con i suoi creditori.

La verità è che il rischio morale è dall’altra parte. Sono gli Istituti di Credito che sono stati salvati qui. Sono loro che non hanno guardato con prudenza alla solidità del prenditore pensando che, tanto, al momento del rendiconto sarebbero stati salvati. Che nessuno avrebbe fatto fallire la Deutsche Bank (che era esposta per il 95% del patrimonio di vigilanza con le banche greche, su un totale del 6.800 % come racconta France Coppola, ed ora è scesa a 300 milioni). Che le stock option non si toccano. Che, tanto, al momento sarò già stato promosso…

L’Europa (e gli Stati Uniti, che con AIG hanno per lo più salvato crediti bancari in sofferenza, ancora di Deutsch Bank, magari alla Germania andrebbe gentilmente ricordato) ha permesso, per evitare “il contagio”, che questi debiti si spostassero dal portafoglio degli azionisti in quello dei contribuenti. Ma se ha fatto questo, per salvare i poveri azionisti e dirigenti imprudenti, “dovrebbe essere l’Europa, e non la Grecia a sopportarne le conseguenze. Infatti l’attuale situazione della Grecia, incluso il suo massiccio ricorso del rapporto di debito è in gran parte colpa dei programmi sbagliati della Troika rifilati.” Non è la ristrutturazione del debito ma la sua assenza ad essere “immorale”.

Del resto quel che succede alla Grecia è abbastanza normale nell’attuale fase di sovraindebitamento e carenza di domanda mondiale (due cose strettamente connesse, come anche connesse alle riserve ed alla enorme massa di denaro liquido che si sposta nei mercati), ciò che la rende difficile, dice Stiglitz “è la struttura della zona Euro”. Infatti “l’unione monetaria implica che gli Stati membri non possono svalutare ed in questo modo tirarsi fuori dai guai, ma il minimo di solidarietà europea che deve accompagnare questa perdita di flessibilità politica semplicemente non c’è”.

Perfidamente il nobel americano (che è  nella migliore posizione per dirlo) ricorda che settanta anni fa, alla fine della seconda guerra mondiale, gli alleati hanno concesso alla Germania un “nuovo inizio”. Comprendendo che l’ascesa di Hitler era stata causata più dal tasso di disoccupazione che dai disordini monetari (peraltro deflattivi e non inflattivi) e hanno rinunciato a far pagare alla Germania i suoi debiti di guerra ed i danni ciclopici provocati in mezzo mondo. Hanno perdonato i debiti ed hanno anche fatto di più: fornito aiuti e stimoli fiscali.

Insomma, se è un’azienda a fallire si fa un accordo tra debito e patrimonio (che li coinvolge) allo scopo di trovare la migliore soluzione in termini di equità ed efficacia possibile. Per la Grecia, sostiene Stiglitz, questo significherebbe convertire i suoi attuali debiti in Obbligazioni connesse alla crescita del PIL (io preferirei al tasso di disoccupazione ed al PIL) che spingerebbero tutti ad avere corretti interessi in favore della crescita sostenibile.

Per concludere lo studioso americano ricorda che “raramente le elezioni democratiche lasciano un messaggio chiaro come quello greco”, se l’Europa dice di no, “sta dicendo che la democrazia non ha alcuna importanza, almeno quando si tratta di economia”. Ma allora, “perché non chiudere la democrazia”?

“Si spera che coloro che comprendono l’economia del debito e dell’austerità, e che credono nella democrazia e nei valori umani prevalgano”.

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Il risveglio dopo l’era di Samaras

Dimitri Deliolanes, Il Manifesto, 30 gennaio 2015

Con il ter­rore dipinto sul volto il pre­si­dente dell’Eurogruppo dal nome impro­nun­cia­bile ha sco­perto ad Atene che il governo di Ale­xis Tsi­pras intende pro­se­guire esat­ta­mente sulla strada che aveva annun­ciato prima delle ele­zioni. Una sco­perta evi­den­te­mente scon­vol­gente, a giu­di­care dal volto ceru­leo con il quale l’olandese Jeroen Dijs­sel­bloem è uscito dal suo primo incon­tro con il mini­stro greco delle Finanze Yanis Varoufakis.

Se Dijs­sel­bloem avesse speso un po’ di tempo a leg­gere il pro­gramma di Syriza non sarebbe caduto dalle nuvole. Varou­fa­kis prima e Tsi­pras dopo non hanno fatto altro che ripe­ter­glielo punto per punto. L’olandese ha chie­sto lumi sul «pro­gramma di aggiu­sta­mento». Doveva finire con il 2014 ma è stato pro­lun­gato di due mesi. L’Ue deve ver­sare un’ultima tran­che di 7,1 miliardi, ma in cam­bio esige nuove misure di auste­rità. Per­fino il governo pre­ce­dente aveva decli­nato l’invito: era­vano alla vigi­lia delle ele­zioni, sem­mai se ne poteva par­lare dopo.

Varou­fa­kis ha rispo­sto al pre­si­dente dell’eurogruppo che non ha alcuna inten­zione di accet­tare una nuova discesa della troika.

Anzi, con la troika non ci parla pro­prio, per­ché è un «comi­tato di ese­cu­tori». «C’è una dif­fe­renza enorme tra gli organi isti­tu­zio­nali dell’Ue, come la Bce e la Com­mis­sione Euro­pea, ma anche gli orga­ni­smi inter­na­zio­nali, come il Fmi, con i quali abbiamo ini­ziato il nego­ziato e li con­si­de­riamo nostri part­ner, da una parte, e dall’altra un comi­tato che segue una logica anti­eu­ro­pea, inca­ri­cato dell’esecuzione di un pro­gramma da noi respinto, e che, per il Par­la­mento Euro­peo, è stato strut­tu­rato in maniera fret­to­losa». Atene intende dia­lo­gare solo con le isti­tu­zioni euro­pee e con i governi.

Dijs­sel­bloem ricorda i 7 miliardi in sospeso, Varou­fa­kis gli ripete che la Gre­cia è già fuori dal pro­gramma di auste­rità «un minuto dopo la pro­cla­ma­zione dei risul­tati». In altre parole, se li vogliono ver­sare bene, ma le nuove misure se le pos­sono scor­dare. «Siamo stati eletti per can­cel­lare la poli­tica di auste­rità. Il pro­gramma della troika non vale più, ne faremo uno nuovo, insieme». L’olandese non sa che dire: «Il pro­gramma (della troika) è ancora in fun­zione, a fine feb­braio vedremo cosa fare». Intanto però rispol­vera il vec­chio reper­to­rio: «La Gre­cia ha otte­nuto alcuni pro­gressi. È un pec­cato rischiare di ren­dere tutto vano a causa delle ele­zioni. Le azioni uni­la­te­rali non sono certo un pro­gresso». Era esat­ta­mente quello che diceva Anto­nis Sama­ras in cam­pa­gna pre­e­let­to­rale. Ma il buon Sama­ras, tanto com­pren­sivo per le ansie di Dijs­sel­bloem e di Schaeu­ble, non c’è più.

Ora c’è Ale­xis Tsi­pras che lo acco­glie dopo l’incontro con Varou­fa­kis. Dal quale Dijs­sel­bloem, scuro in volto e ner­voso, è pra­ti­ca­mente scap­pato, gua­da­gnando la porta, quasi senza salu­tare un sor­ri­dente Varoufakis.

Ma anche con il pre­mier non è andata bene per lui. «Il pro­gramma appli­cato dalla troika è fal­lito», gli ha detto chiaro e tondo Tsi­pras. «Non sono d’accordo», risponde Dijs­sel­bloem. «Dia un’occhiata al numero dei disoc­cu­pati, dei poveri e la per­cen­tuale del debito sul Pil», riba­di­sce Tsi­pras. «Chie­de­rete una pro­roga?», chiede l’olandese. «Il pro­gramma della troika è stato respinto per deci­sione del popolo greco». Chiuso il capi­tolo troika. Rimane il pro­blema del debito. Nulla da fare, per i greci, Dijs­sel­bloem non ne vuole pro­prio sen­tir par­lare. Con­fe­renza euro­pea? «Ma c’è già – com­menta– ed è l’Eurogruppo».

L’unica buona noti­zia che l’olandese por­terà con sé sarà l’assicurazione del nuovo pre­mier che non intende tor­nare alla poli­tica dei defi­cit del pas­sato. Anzi, il pro­gramma del governo Syriza «è incen­trato sul modo di affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria, ma pre­vede anche un vasto pro­gramma di riforme al fine di restau­rare l’efficacia e la cre­di­bi­lità dell’amministrazione pub­blica, com­bat­tere l’evasione fiscale, il clien­te­li­smo e la cor­ru­zione. Su que­sto fronte acco­glie­remo volen­tieri le vostre idee e i vostri suggerimenti».

Tsi­pras non è iro­nico. Sa benis­simo che per quat­tro anni la troika ha alle­gra­mente col­la­bo­rato e soste­nuto i cor­rotti e i signori delle tes­sere. Ma vuole offrire una via d’uscita: con­ti­nue­remo a lavo­rare insieme, ma è finita l’epoca dei diktat.

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Felice Roberto Pizzuti, Il Manifesto, 14 gennaio 2015

Come era pre­ve­di­bile, l’annuncio delle ele­zioni anti­ci­pate in Gre­cia e i son­daggi che indi­cano al primo posto Syriza, la sini­stra di Ale­xis Tsi­pras, hanno fatto scat­tare la stra­te­gia dell’allarmismo eco­no­mico, una rispo­sta con­ser­va­trice che, tut­ta­via, rischia di essere negli­gen­te­mente ali­men­tata anche da chi la subi­sce il pro­cesso d’unificazione euro­peo si sta peri­co­lo­sa­mente invol­vendo e si avvi­cina la resa dei conti sul se e sul come potrà andare a compimento.

Una ipo­tesi otti­mi­stica è che l’inasprirsi delle posi­zioni tede­sche (e col­le­gate) indi­chi l’inizio dalla Grande Con­trat­ta­zione su come defi­nire la costru­zione dell’Ue. Le con­si­de­ra­zioni che le ban­che tede­sche sono oggi (rispetto al 2012) molto meno espo­ste verso il debito greco e che le pic­cole dimen­sioni dell’economia greca la ren­dano non «troppo grande per poter fal­lire», potreb­bero farla rite­nere la vit­tima ideale nella logica di «col­pire uno per edu­carne cento». Ma sarebbe una visione miope, da appren­di­sta stre­gone. Chi è ten­tato da que­sta stra­te­gia, ma anche i cri­tici «da sini­stra» del pro­cesso uni­ta­rio, dovreb­bero riflet­tere su due que­stioni. La prima è che per ognuno dei Paesi euro­pei è dif­fi­cile imma­gi­nare un’alternativa eco­no­mica e poli­tica migliore alla per­ma­nenza nell’Unione. La seconda è che oggi non è in discus­sione se costruire ex novo l’Unione euro­pea e/o la moneta unica, ma se pro­ce­dere alla neces­sa­ria riqua­li­fi­ca­zione delle scelte fatte – impron­tate ad un ini­quo e con­tro­pro­du­cente libe­ri­smo austero — tenendo conto che anche solo rece­dere ordi­na­ta­mente dalla moneta unica richie­de­rebbe molta più coo­pe­ra­zione tra gli attuali Paesi mem­bri che non per avan­zare verso una unione eco­no­mica e poli­tica più orga­nica e coesa. Ma non sarebbe facile tor­nare indie­tro senza aggra­vare crisi col rischio di esten­derla oltre la dimen­sione economica.

I con­tra­sti sulla costru­zione euro­pea si stanno con­cen­trano sulle poli­ti­che di bilan­cio da attuare (o imporre) nei paesi dell’Unione e l’esperienza greca si avvia ad assu­mere una valenza dimo­stra­tiva. Peral­tro, emerge una para­dos­sale con­ver­genza nell’enfatizzare il debito pub­blico: tra chi lo con­si­dera una “colpa” da rimuo­vere a tappe for­zate per poter riav­viare una cre­scita “sana” (la logica del fiscal com­pact) e chi tout-court lo vuole ripu­diare come scelta poli­tica ripa­ra­trice dell’economia ini­qua che l’ha creato. In entrambe le posi­zioni si tende ad attri­buire un ruolo sim­bo­lico al debito pub­blico che pre­giu­dica le pos­si­bi­lità di disin­ne­scarne gli effetti negativi.

Ele­vati e per­si­stenti debiti pub­blici pos­sono gene­rare pro­blemi per la cre­scita e per la distri­bu­zione del red­dito, ma per non cadere in demo­niz­za­zioni con­tro­pro­du­centi è neces­sa­rio anche tener pre­sente che essi non hanno tutti le stesse ori­gini e la stessa com­po­si­zione dei cre­di­tori. Ad esem­pio, il debito tede­sco ricon­trat­tato nella con­fe­renza del 1953 ori­gi­nava da ripa­ra­zioni di danni di guerra impo­sti dai paesi vin­ci­tori e riguar­dava rap­porti tra stati; l’accordo fu una scelta poli­tica lun­gi­mi­rante (diversa da quella suc­ces­siva alla prima guerra mon­diale che ali­mentò l’avvento del nazi­smo). La que­stione del debito greco che Syriza vuole ridi­scu­tere riguarda essen­zial­mente le con­di­zioni impo­ste nel 2012 dalla troika (Fmi, Bce, Ue) al governo greco per il piano di sal­va­tag­gio delle finanze pub­bli­che elle­ni­che impron­tato alla logica dell’austerità che non solo sta oppri­mendo le con­di­zioni economico-sociali del Paese, ma sta minando la cre­scita dell’intera Ue e le sue stesse pro­spet­tive d’esistenza. Anche in que­sto caso si tratta di una richie­sta di ricon­trat­ta­zione tra isti­tu­zioni che andrà valu­tata in un con­te­sto politico.

Il debito pub­blico ita­liano, che da decenni con­di­ziona la nostra eco­no­mia, riguarda pre­stiti con­tratti dallo stato ita­liano sui mer­cati che ogni anno ven­gono rin­no­vati per i titoli che arri­vano a sca­denza. Anche solo evo­care forme di con­so­li­da­mento da parte dei respon­sa­bili poli­tici ed eco­no­mici ita­liani pro­vo­che­rebbe rea­zioni dei mer­cati, degli altri stati, delle isti­tu­zioni inter­na­zio­nali e nella società ben più con­crete di gene­rici allar­mi­smi; cosic­ché, prima di par­larne, sarebbe oppor­tuno almeno con­fron­tare pre­ven­ti­va­mente que­sti effetti con quelli di altre pos­si­bili poli­ti­che di rien­tro del debito.

A scopo esem­pli­fi­ca­tivo, ricor­diamo che il fiscal com­pact pre­vede che il rap­porto debito/Pil sia ridotto in 20 anni entro il 60%. Per l’Italia, ciò impli­che­rebbe avanzi annuali del bilan­cio pub­blico pri­ma­rio (al netto delle uscite per inte­ressi sul debito) la cui entità dipende dalla cre­scita nomi­nale del Pil (com­pren­siva dun­que dell’inflazione) e dal tasso medio d’interesse sul debito. Se nel pros­simo ven­ten­nio ci fosse costan­te­mente una cre­scita reale dell’1%, infla­zione allo 0,5%, e un tasso medio d’interesse nomi­nale sul debito del 3% (con­di­zioni tutte più favo­re­voli di quelle attuali), astraendo dalle con­di­zioni di com­pa­ti­bi­lità di que­ste ipo­tesi, per ridurre il nostro debito al 60% del Pil occor­re­rebbe ogni anno un avanzo pri­ma­rio del 6% del Pil (più di 3 volte quello pro­gram­mato per il 2015) cioè una mano­vra annuale cor­ri­spon­dente a 90 miliardi attuali. È del tutto evi­dente che mano­vre di que­sta entità non sareb­bero nem­meno lon­ta­na­mente soste­ni­bili né eco­no­mi­ca­mente né social­mente e comun­que avreb­bero effetti peg­gio­ra­tivi sulla cre­scita e sul rap­porto debito/Pil.

Se invece ci fosse una cre­scita reale del 3%, infla­zione al 3% e un tasso d’interesse sul debito del 4% (valori attual­mente molto otti­mi­stici, ma non ano­mali) sarebbe suf­fi­ciente ogni anno un avanzo pri­ma­rio dell’1,8% (valore leg­ger­mente infe­riore a quello pro­gram­mato dal governo per il 2015; il quale, però, non con­sen­tirà né di rilan­ciare la cre­scita né di ridurre l’incidenza del debito per­ché inse­rito in un qua­dro di poli­ti­che “austere” che inte­ra­gi­scono nega­ti­va­mente). L’esercizio serve ad evi­den­ziare come il rien­tro del debito pub­blico richie­de­rebbe oneri molto minori e comun­que soste­ni­bili se inse­rito in un cir­colo vir­tuoso ali­men­tato da poli­ti­che rivolte alla cre­scita del Pil, a bassi tassi d’interesse e a una mode­rata infla­zione che dovrebbe essere accom­pa­gnata da misure di sal­va­guar­dia del potere d’acquisto dei red­diti da lavoro.

Una poli­tica di que­sto tipo – che ripa­ghe­rebbe il debito con la cre­scita evi­tando gli effetti impre­ve­di­bil­mente rischiosi e con­flit­tuali di un default — avrebbe molte chance di suc­cesso pro­prio se effet­tuata a livello euro­peo, dove favo­ri­rebbe la cre­scita gene­rale (anche della Ger­ma­nia), la distri­bu­zione del red­dito e la ridu­zione delle diso­mo­ge­neità nazio­nali. La mag­giore dimen­sione e la minore aper­tura verso l’estero dell’intero sistema eco­no­mico con­ti­nen­tale con­sen­ti­reb­bero mag­giori mar­gini di scelta anche rispetto al neces­sa­rio miglio­ra­mento della qua­lità sociale ed eco­lo­gica della cre­scita, atte­nuando i vin­coli posti dall’equilibrio della bilan­cia dei paga­menti, dai mer­cati e dalla spe­cu­la­zione inter­na­zio­nali. Que­sti sareb­bero aspetti strut­tu­rali del New Deal euro­peo neces­sa­rio a ribal­tare la visione liberistico-austera che sta tra­sci­nando l’Ue nella crisi e verso la sua dis­so­lu­zione. È in que­sta dire­zione di cam­bia­mento con­creto — e non con quello gene­ri­ca­mente “stril­lato” fun­zio­nale all’allarmismo con­ser­va­tore — che dovreb­bero con­ver­gere tutte le forze pro­gres­si­ste euro­pee, a comin­ciare — per quanto ci riguarda più da vicino — da quelle della sini­stra italiana.

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Marcello De Cecco, Sbilanciamo l’Europa, 10 ottobre 2014, N. 37, “MittelEuropa”

Non ci sono luci nell’orizzonte europeo. Recessione, rallentamento economico mondiale, conflitto ucraino e tensioni con Mosca affondano l’economia e rendono instabile la politica. L’«Europa tedesca» ha piegato la Francia, ma non può far funzionare l’Unione

Nelle scorse settimane c’è stato un diluvio di dati negativi sull’andamento dell’economia mondiale e, in particolare, su quella europea. I dati relativi alla zona euro sono i peggiori di tutti, ma sembra che ci siamo ormai abituati.

Il resto del mondo non se la passa meglio dei cittadini della zona euro. La Germania, il paese di maggior successo nell’area dell’euro, non può così sperare in un ragionevole tasso di crescita esportando quelle merci che non può e non vuole vendere sul mercato interno. Solo pochi mesi fa le prospettive di crescita per i paesi di maggior successo nella zona euro, in particolare per la Germania, apparivano significativamente migliori. Ed è altrettanto recente l’immagine di un euro forte nei confronti del dollaro. L’euro, tuttavia, oggi appare molto diverso: si è fortemente indebolito nei confronti del dollaro e la ragione principale di questo mutamento di prospettiva è la situazione di guerra aperta nell’est dell’Ucraina, esplosa con il pesante coinvolgimento, dietro le linee, di Russia e Unione Europea.

Una fragile tregua è stata raggiunta nelle scorse settimane, ma non è chiaro quanto sarà solida e per quanto potrà durare. Ovviamente, anche la politica monetaria europea e americana ha avuto un ruolo, ma la Federal Reserve, dal canto suo, non sembra ancora veramente decisa ad avviare una seria politica restrittiva.

Per questa ragione, penso che un’analisi dello stato dell’Unione Europea sul piano economico debba necessariamente considerare le variabili di politica internazionale come fattori esplicativi fondamentali. I fenomeni politici e militari incidono in modo particolare sulle aspettative future degli operatori economici. Quando si verifica un evento come l’attuale guerra civile in Ucraina, tendono a ridursi sia gli investimenti che i consumi nei paesi europei e, in particolare, in Germania, pesantemente coinvolta nelle vicende ucraine dai tempi degli zar e, nuovamente, da quando il paese è diventato indipendente dalla Russia. Inoltre, la Germania è oggi il cuore di una nuova versione della MittelEuropa, un’area che si è profondamente integrata con l’economia tedesca, tanto che oggi può essere considerata come un’unica area di produzione ed esportazione.

La Germania, naturalmente, è un gigante dell’export. È il principale produttore di automobili e beni d’investimento per il resto d’Europa, ma anche per altri grandi importatori come la Cina e gli Stati Uniti. Vista la caduta del Prodotto Interno Lordo (Pil) europeo causata dalla carenza di domanda interna, gli esportatori tedeschi si sono finora affidati alla domanda proveniente da Cina, Usa, Brasile e Russia.

Nessuno di questi paesi, tuttavia, sembra che potrà avere un boom di investimenti nel prossimo futuro. In Cina le prospettive di crescita sono state ridotte e il boom dell’economia brasiliana è al termine. L’economia americana continua a brillare se la si confronta con quella europea, ma a breve potrebbe essere colpita dall’inizio della fine di una fase quasi decennale di politica monetaria fortemente espansiva, anche se possiamo aspettarci che Janet Yellen, la presidente della Federal Reserve, aspetterà almeno l’esito delle elezioni americane di medio termine prima di prendere qualunque iniziativa sul fronte della politica monetaria. Il boom della Borsa americana non dev’essere fermato prima della competizione elettorale: ogni cittadino americano, attraverso il suo fondo pensione, ha un interesse perché questo non avvenga.

Se le elezioni americane dovessero andar male per i Democratici, com’è probabile, l’amministrazione Obama reagirà con una vigorosa politica espansiva nei due anni a venire, in modo di arrivare alle elezioni presidenziali con un’economia forte e una Borsa ancora più forte.

Tuttavia, se le relazioni tra Russia e occidente dovessero improvvisamente peggiorare in modo significativo, isolare la Borsa di New York dalle conseguenze negative della crisi internazionale potrebbe diventare molto difficile. Dovremo vedere la reazione della Federal Reserve di fronte a un crollo dell’indice Dow Jones del trenta per cento, un’ipotesi piuttosto realistica, visto che si è verificata non meno di sei volte negli ultimi decenni. La mia personale ipotesi, estrapolando i comportamenti passati, è che, così come dopo l’11 settembre 2001 e, in particolar modo dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, la Federal Reserve darà inizio a una nuova fase di denaro a bassissimo costo e la porterà avanti fino a che la fase acuta della crisi politica internazionale non sarà terminata. Tuttavia, anche con previsioni così accomodanti per la politica monetaria americana, è probabile che la recessione in Europa continui.

Se una previsione di questo tipo è ragionevole, una politica economica realistica per l’Europa dovrebbe prevedere la prosecuzione di una politica monetaria espansiva accompagnata da uno stimolo fiscale innovativo. Draghi continua a ripetere che non consentirà alla Bce di cambiare l’attuale politica espansiva, ma sottolinea che i governi, specialmente nei paesi in surplus, devono introdurre misure fiscali per stimolare consumi interni e importazioni.

Nessun effetto positivo di carattere macroeconomico sembra essere finora emerso dell’introduzione, il 4 novembre prossimo, dell’Unione Bancaria europea. Le banche quest’anno sono state assorbite dalla necessità di preparare i loro bilanci per la revisione patrimoniale che l’European Banking Authority sta realizzando sui 120 più grandi istituti del vecchio continente. I risultati di tale revisione saranno resi noti in occasione del trasferimento dei poteri di vigilanza bancaria alla Banca Centrale Europea, una vera innovazione nella politica bancaria e monetaria. La consapevolezza di avere una debole capitalizzazione ha spinto molte grandi banche a rafforzarsi, collocando nuove quote azionarie sul mercato ma, soprattutto, rientrando dalle proprie posizioni creditorie con ovvie conseguenze depressive. Inoltre, le banche, specie nei paesi più fragili, hanno preferito prestare ai propri governi piuttosto che a imprese esposte al rischio, malgrado la possibilità di dover accettare un forte “hair cut” nel valore del credito nel caso di una nuova crisi.

All’interno dell’Europa, le autorità francesi si sono costantemente collocate al fianco di quelle tedesche in tutte le decisioni, o non-decisioni, prese a livello europeo, con l’obiettivo di convincere i mercati internazionali che il loro paese avrebbe sicuramente avuto il sostegno della Germania nel caso si fosse presentata la necessità.

L’effetto di lungo periodo di questo tipo di alleanza è stata la costante pressione tedesca per rallentare l’azione della Bce e della Commissione Europea durante la crisi, risultando nel sensibile apprezzamento del tasso di cambio dell’euro. Tale apprezzamento ha avuto effetti molto negativi sull’economia francese, che è assai meno competitiva di quella tedesca.

In sintesi, lo stato economico dell’Unione Europea è deplorevole, in particolare se paragonato a quello di altri paesi come Stati Uniti o Cina. È da alcuni anni che la situazione è questa, e tale rimarrà nel prossimo futuro. Non sembrano esserci molte possibilità di vedere il surplus commerciale tedesco nei confronti del resto del mondo ridursi dai livelli patologici su cui si è attestato negli anni recenti. Il surplus tedesco nei confronti del resto d’Europa è scomparso, ma solo per il crollo della domanda nei paesi deboli, che si è tradotto in una caduta delle importazioni.

Nonostante le continue esortazioni di Mario Draghi, del Fondo Monetario Internazionale e ora anche di Jörg Asmussen, importante membro del Partito Socialdemocratico tedesco, la leadership cristiano democratica tedesca è irremovibile nel ribadire, in particolare attraverso la voce di Wolfgang Schauble – che ha il pieno sostegno della Cancelliera – i precetti dell'”economia sociale di mercato”. Si tratta delle regole imposte a tutti i membri dell’eurozona per ottenere da questi l’austerità che è stata e continua ad essere considerata necessaria perché questi paesi possano rimanere all’interno dell’area euro contando esclusivamente sulle proprie forze, senza ricorrere all’aiuto dei paesi più forti. Non ci sono possibilità, dunque, di vedere prossime emissioni di Eurobond.

L’«economia sociale di mercato» significa governare attraverso regole anziché con politiche discrezionali. Due anni fa tutti i paesi membri dell’area euro hanno accettato di introdurre nelle rispettive Costituzioni il pareggio di bilancio inizialmente introdotto dal parlamento tedesco, e perfino meccanismi che prevedono l’adozione automatica di misure deflattive da attivarsi non appena vengano superati i limiti prefissati relativamente al deficit ed al debito pubblico. Schauble ha recentemente annunciato che il bilancio pubblico tedesco raggiungerà il pareggio prima del previsto, nel corso di questo stesso anno fiscale. Altri stati membri non sembrano intenzionati a seguire la Germania su questa strada, malgrado abbiano approvato il Fiscal Compact, ma tutti i paesi in deficit sono stati obbligati ad adottare misure di austerità il cui impatto su spesa pubblica, domanda interna e occupazione non è stato compensato dalla crescita delle esportazioni. L’austerità in questo senso coincide con una visione del mondo che è il contrario di ciò che ispira la moderna politica economica e la macroeconomia.

L’austerità, che è un applicazione pratica dell'”economia sociale di mercato”, vede nei surplus commerciali esterni il risultato naturale del processo competitivo. Il surplus di un’economia molto competitiva è dunque visto come una situazione che non richiede alcun intervento correttivo da parte del paese in surplus. I deficit esteri, al contrario, sono interpretati come manifestazioni patologiche di scarsa competitività che dipendono dal mancato allineamento di salari e rendite con quelli dei paesi in surplus. I paesi in deficit sono dunque chiamati a realizzare politiche deflazionistiche e riforme strutturali capaci di riportare in linea salari e rendite.

Questo può sembrare nuovo, ma gli studiosi di storia economica sanno che questo è sempre stato l’atteggiamento delle nazioni in surplus. A Bretton Woods, furono gli Stati Uniti a impedire che si introducesse nel testo dell’accordo un meccanismo di riequilibrio che pesasse allo stesso modo sui paesi in surplus e in deficit. Gli sforzi di Keynes furono vani. Gli Stati Uniti non accettarono l’idea che l’economia mondiale non sarebbe stata caratterizzata da una tendenza naturale all’equilibrio di piena occupazione e che l’equilibrio avrebbe dovuto essere raggiunto attraverso accordi internazionali su politiche di rilancio da parte dei paesi in surplus.

Gli Stati Uniti – a loro merito – dopo aver constatato gli effetti deflazionistici dell’accordo di Bretton Woods sull’Europa, lanciarono nel 1948 il Piano Marshall, spinti anche dal nascente scontro bipolare a livello internazionale. Si trattò di un gigantesco programma di aiuti economici per evitare ai paesi europei in deficit gli effetti negativi della deflazione sull’occupazione e sugli equilibri politici. La Germania e gli altri paesi europei in surplus stanno riproponendo oggi gli argomenti che gli Stati Uniti usarono contro Keynes all’epoca di Bretton Woods. Le autorità tedesche non hanno alcuna simpatia per l’approccio keynesiano adottato da Mario Draghi, dal Fondo Monetario Internazionale e dagli Stati Uniti, i quali provano a convincere la Germania a rilanciare la domanda interna e ridurre i surplus esterni. Tuttavia, il 2 di marzo 2012, sottoscrivendo il Fiscal Compact, tutti i paesi dell’area euro hanno accettato la visione del mondo della Germania. La domanda da porsi è perché i paesi in deficit abbiano deciso di accettare volontariamente la visione del mondo tedesca introducendola nelle loro agende di politica economica e perfino nelle loro costituzioni.

La mia risposta è articolata: nulla ispira l’imitazione quanto il successo. L’economia tedesca è stata un’economia di successo se si guarda al suo tasso di crescita, al suo tasso di disoccupazione, all’equilibrio dei conti pubblici e alla drastica riduzione del debito pubblico.

La Germania attrae lavoratori qualificati da tutta Europa pagando loro alti salari mentre in altri paesi è difficile trovare lavoro perfino per un giovane ingegnere. La disoccupazione giovanile è molto bassa mentre nell’Europa del sud ha raggiunto livelli fino a poco tempo fa inimmaginabili. E i tedeschi hanno pagato la riforma del loro mercato del lavoro con il proprio sangue, attraverso la creazione di non meno di 7 milioni di lavoratori pagati meno di 400 euro al mese.

Tuttavia, ciò che ha spinto i paesi europei a sottoscrivere il Fiscal Compact è stato il rischio, grave e imminente, di una dissoluzione dell’euro per l’effetto combinato della massiccia speculazione internazionale e del rifiuto da parte dell’opinione pubblica, dei politici e della Corte Costituzionale tedesca. Sarebbe stato possibile a Mario Draghi pronunciare il 26 luglio 2012 il suo ormai celebre «difenderò l’euro a qualunque costo», che sconfisse la speculazione internazionale contro l’euro e placò i timori di una dissoluzione dell’Unione Monetaria, se pochi mesi prima non fosse stato siglato il Fiscal Compact?

Dunque, oltre all’ammirazione per il modello tedesco di crescita economica, c’era nei paesi in deficit la consapevolezza che il Fiscal Compact sarebbe stato il prezzo da pagare per rendere le loro intenzioni sul piano delle politiche deflazionistiche credibili agli occhi della Germania. E, ovviamente, quanto venne deciso durante la famosa “passeggiata di Deauville” da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy nell’ottobre 2010 fu alla radice delle perturbazioni sui mercati e di tutto quanto seguì.

Di nuovo, possiamo vedere come il governo francese sia andato a rimorchio, accettando qualsiasi cosa pur di mostrare la propria relazione speciale con la Germania e costruendo, in questo modo, le basi per ottenere la tripla A per i propri titoli di Stato. Non esiste in Francia la tradizione di legare le decisioni del governo agli interessi dell’alta finanza come accade, ad esempio, nel Regno Unito con la City di Londra. In molte occasioni, tuttavia, abbiamo avuto la netta impressione che l’azione del governo francese in ambito europeo fosse spinta dalla necessità per le grandi banche francesi di mantenere un buon rating sul debito pubblico nazionale, da usare come base per le loro operazioni internazionali.

Qualcuno sostenne che questo stato di cose sarebbe cambiato una volta arrivato un socialista all’Eliseo. Gli stessi intravedono l’alba di una relazione speciale tra Francia ed Italia, capace di produrre una posizione politica nuova, opposta a quella tedesca. Quest’interpretazione, tuttavia, non è fondata. Ignora la nuova storia d’amore tra la Germania e la Spagna conservatrice. Dimentica anche che Matteo Renzi era un protetto della Cancelliera Merkel molto prima di essere nominato Presidente del consiglio e che il premier italiano ribadisce costantemente che la Germania rappresenta il suo modello di politica economica. Fino a quando l’opinione pubblica tedesca non inizierà a vedere gli effetti negativi della deflazione sul proprio benessere resterà ostile perfino a critiche moderate, come quella di Jörg Asmussen alle dure politiche di Schauble. Dopo che il recente deprezzamento dell’euro ha dato nuovo vigore alle esportazioni tedesche, le speranze di un cambiamento nella politica economica della Germania restano esclusivamente legate all’eventualità che l’acuirsi della crisi in Ucraina peggiori le previsioni per l’economia tedesca, in particolare per quel che riguarda investimenti e consumi. Le recenti dichiarazioni del presidente degli industriali tedeschi potrebbero rappresentare un segnale in questa direzione.

Si tratta, in ogni caso, di uno scenario da «ultima spiaggia». Vogliamo davvero che sia uno scenario di guerra indiretta tra Russia e Unione Europea nell’est dell’Ucraina quello che ammorbidisce la politica economica tedesca? Ricordiamoci che, se una situazione del genere avvenisse davvero, la reazione della Germania potrebbe essere opposta, con una crescita dei consensi al nuovo partito anti-euro Alternative fur Deutschland, e un atteggiamento ancora più rigido sul rispetto dei vincoli del Fiscal Compact.

Mi spiace di non vedere per l’Europa un orizzonte molto luminoso. E non credo che le sanzioni renderanno Putin più ragionevole. La sua popolarità in Russia aumenta di pari passo con il nazionalismo delle sue posizioni. Può essere preso per fame, facendo salire alle stelle il prezzo dei generi alimentari in Russia, moltissimi dei quali sono importati dall’Europa e sono stati bloccati per ritorsione da Putin? Tradizionalmente, questo non è mai accaduto. Ma la Russia non era mai stata così dipendente dall’estero per beni essenziali come il cibo. Solo un enorme raccolto di grano ha consentito di allontanare il rischio di una crisi alimentare, ma il calo dei prezzi del petrolio ha lavorato nella direzione opposta riducendo gli introiti russi legati all’esportazione di materie prime.

L’AUTORE

Marcello de Cecco è uno dei maggiori esperti di italiani di politica monetaria e finanza. È professore emerito di Storia della moneta e della finanza alla Scuola Normale Superiore di Pisa e docente alla Luiss di Roma. Il suo ultimo libro sulla politica economica italiana e internazionale è «Ma che cos’è questa crisi. L’Italia, l’Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013)», Donzelli, Roma, 2013. Questo testo riprende la sua relazione su «Lo stato dell’Unione europea» che ha aperto il convegno di EuroMemorandum tenuto a Roma il 25 settembre 2014 (www.euromemo.eu).

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