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Posts Tagged ‘Turchia’

Chiara Cruciati, Il Manifesto, 11 maggio 2015

Human Rights Watch pubblica il video delle violenze turche sui rifugiati: ad aprile almeno 5 morti. Altre 48 ore di tregua ad Aleppo, mentre Usa e Russia annunciano un nuovo tavolo internazionale per il 17 maggio.

Faisal chiede aiuto per girare il corpo martoriato dai pestaggi di un rifugiato senza vita: «Questa persona è morta mentre attraversava il confine verso la Turchia. Sai com’è morta? Non per una pallottola, ma per le botte». Lui, siriano, si trova da mesi al confine per aiutare chi scappa dalla guerra. Il video pubblicato lunedì da Human Rights Watch è terrificante: si vedono le guardie di frontiera turche picchiare siriani in fuga, si vedono cadaveri, si sentono le voci di chi è sopravvissuto e ora racconta gli abusi subiti prima per strada e poi nelle caserme.

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Ancora sulla crisi dell’Unione Europea, sulla scaramuccia fra il nostro presidente del Consiglio dei ministri e quello della Commissione europea.

Lo si voglia o no, al momento quello dell’Europa è il nodo centrale della politica, a tutti i livelli. I condizionamenti delle scelte di Bruxelles si fanno sentire anche a livello locale e la vera sfida è quella di capire se i Trattati che istituiscono l’Unione Europea siano riformabili e in quale misura o se la costruzione debba considerarsi irreversibile e destinata al fallimento.

Le riflessioni dell’articolo sotto riportato sono interessanti, seppure espresse in forma assolutamente schematica, almeno per chi parte dal presupposto che l’unificazione dell’Europa sia un fatto politico imprescindibile.

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Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker

Mai avrei pensato di arrivare al punto di dover difendere il presidente della Commissione europea Juncker, democristiano dichiarato lussemburghese, dall’attacco di Matteo Renzi, democristiano non dichiarato italiano. Siamo alla frutta. L’Europa, che avrebbe altre cose a cui pensare, lievemente più importanti, sembra essere impegnata in beghe da condominio, con l’inquilino dei piani bassi che protesta nei confronti dell’amministratore. Il tutto, naturalmente, mentre stiamo assistendo allo sfascio evidente dell’economia con la totale incapacità di trovare ricette alternative e alla palese violazione dei più elementari diritti civili nei confronti dei profughi di guerre cui l’Europa ha partecipato attivamente.

Se non si porrà fine a questa situazione, il nostro continente si trasformerà in un posto da incubo. Pessimismo, il mio? Purtroppo no. Sano realismo.

E trovo inoltre inquietante l’espressione arrogante del nostro presidente del Consiglio dei ministri nella foto qui a sinistra (scusate, ma mi rifiuto di chiamarlo premier perché, fino a prova contraria, la Costituzione repubblicana è ancora in vigore).

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Alessandro Dal Lago, Il Manifesto, 16 dicembre 2015

L’idea di un’Europa solidale con i deboli, accogliente e aperta agli stranieri è naufragata giorno dopo giorno, negli ultimi anni, tra eruzioni di sciovinismo nazionale e locale, negazione dei diritti umani e ottusità burocratica comunitaria. Oggi, la Commissione europea dà un altro colpo di piccone all’ideologia europeistica, già abbondantemente compromessa, rivelandosi apertamente per quello che è, ovvero un’istituzione, non eletta da nessuno, ma delegata dagli stati al controllo economico interno ed esterno.

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Tommaso Di Francesco, Il Manifesto, 13 dicembre 2015

Intervista ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo ed esperto del paese

Abbiamo rivolto alcune domande sulla fase attuale della crisi libica ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e esperto di Libia.

Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco.

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di Dilar Dirik, attivista curda e dottoranda all’università di Cambridge.
FonteAl di là del buco, 28 novembre 2015

La sua ricerca è incentrata sul Kurdistan e il movimento delle donne curde

(Titolo come apparso nel blog dell’autrice: The Women’s Revolution in Rojava: Defeating Fascism by Constructing an Alternative Society, dal capitolo “A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution” in Strangers in a Tangled Wilderness, Marzo 2015, Combustion Books. Traduzione di Eugenia)

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Nafeez Ahmed, Oneuro, 28 novembre 2015

«Sosteniamo gli sforzi della Turchia nel difendere la propria sicurezza nazionale e combattere il terrorismo. La Francia e la Turchia sono dalla stessa parte nell’ambito della coalizione internazionale contro il gruppo terroristico ISIS». Dichiarazione del ministro degli Esteri francese, luglio 2015.

Come l’11 settembre 2001, anche il massacro del 13 novembre 2015 verrà ricordato come un momento di svolta nella storia mondiale.

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Fulvio Scaglione, Famiglia Cristiana, 15 novembre 2015

Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l’Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell’aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali

È inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava.

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Come ci ricorda Lucia Annunziata nel suo blog sull’Huffington Post, la decisione di Parigi di chiudere le frontiere è una “fragile confessione di impotenza”. Aggiungerei anche patetica e inutile.

Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di nascondere lo sporco sotto il tappeto, perché gli attentati di Parigi (anzi, le azioni di guerra di Parigi) sono il frutto di azioni che sono state compiute nel recente passato in maniera fortemente irresponsabile, perché non si è voluto tenere conto delle possibili conseguenze. Quando ci si arroga il diritto di bombardare interi paesi si deve mettere in conto che, prima o poi, si scatenerà una reazione. E non sempre (quasi mai) questa reazione sarà gradita.

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Alessandro Dal Lago, Il Manifesto, 13 novembre 2015

Al vertice di La Valletta tra i leader europei e africani ha vinto il cinismo globale. Noi vi diamo un miliardo e ottocento milioni di euro e voi ci tenete i migranti lontani dalle coste e dai confini della Ue. Non bastano, hanno rilanciato subito i leader africani, i quali si divideranno però la mancia, anche se nessuno sa di preciso come e quando. Qualche tempo fa, Angela Merkel, che pure aveva suscitato grande scalpore e simpatia dichiarando di aprire le porte della Germania ai profughi siriani, aveva fatto una proposta simile al governo turco, il quale ha risposto più o meno picche. Qual è il senso di questo mercanteggiamento sulla pelle di centinaia di migliaia di esseri umani?

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Mehmet (o Mehmed) Emin Bozarslan

Trovo che questa poesia di Mehmet (o Mehmed) Emin Bozarslan, poeta curdo del XX secolo, sia emblematica dello stato di angoscia e oppressione in cui vive quel popolo. Bozarslan, nato nel Sud della Turchia nel 1935, chiese asilo politico in Svezia nel 1978. Da allora vive nel paese scandinavo a Uppsala.

La sua vicenda personale lo vede due volte imprigionato: la prima, per aver dato alle stampe Alfabê, un abbecedario per lo studio della lingua curda che venne pubblicato in Turchia nel 1968, con l’accusa di separatismo; sotto il regime militare venne nuovamente incarcerato dal 1971 al 1974.

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Ci sono troppe coincidenze sospette in quello che è accaduto ad Ankara alla marcia per la pace.

Turchia

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Roberto Musacchio, L’Altra Europa con Tispras, 2 ottobre 2015

Alfiero Grandi nell’articolo “Crisi dell’Unione Europea e sinistra” pone giustamente l’esigenza che la sinistra avanzi una propria proposta di ripensamento complessivo della UE. Ne offre l’occasione, scrive, l’autorevolezza con cui Mario Draghi pone la questione che ci si doti di un vero ministro dell’economia dell’area euro. Ciò consentirebbe di profittare dello spazio di riflessione che si è aperto anche in settori conservatori e di provarsi a modificare il quadro, compreso quello dei trattati, facendo perno sostanzialmente sull’area euro per un cambiamento politico di fondo. Chiedo scusa a Grandi per la sommarietà e forse l’imprecisione con cui ho riassunto la sua proposta.

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Alessandro Portelli, Il Manifesto, 30 luglio 2015

Le ferite d’Europa. Un po’ per volta l’Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e pregiudizi nazionali e razziali, l’eredità di un secolo e mezzo di colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo sfrenato

Da Lam­pe­dusa non si entra. Da Calais non si esce. Da Ven­ti­mi­glia non si passa. Dalla Ser­bia a Buda­pest si viag­gia in vagoni piom­bati. A Ceuta e Melilla, enclave spa­gnole in terra d’Africa, come al con­fine fra Bul­ga­ria e Tur­chia o al con­fine fra Unghe­ria e Ser­bia, si alzano reti­co­lati e muri.

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Giuliana Sgrena, Il Manifesto, 26 giugno 2015

Chi riu­scirà a scon­fig­gere i ter­ro­ri­sti dell’Isis? Solo chi ha un pro­getto di società alter­na­tivo a quello fon­da­men­ta­li­sta del calif­fato e dei suoi soste­ni­tori, a oriente e a occidente.

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Alessandro Dal Lago ci ricorda come si è giunti (e chi sono i responsabili, perché hanno nome e cognome), scrive una frase che mi ha molto colpito e che sintetizza perfettamente i tempi che stiamo vivendo: l'”Europa che sa solo sbagliare“. È drammaticamente vero, in politica estera così come in politica economica. Ma perché questa Europa sa solo sbagliare? In parte per l’incapacità, tecnica e politica, dei leader che attualmente la governano e in parte perché, in un regime di concorrenza fra paesi, ciascun capo di Stato vuol dimostrare di essere il migliore, quello con la capacità di analizzare meglio degli altri la situazione internazionale, il più europeista, il migliore strategica.

Insomma, ognuno di lor signori desidera passare alla storia. E devo di re che, se continuano così, ci riusciranno. Ma non si tratterà di sicuro delle pagine per noi più belle. Comunque, grazie a Dal Lago per l’estrema chiarezza.

Alessandro Dal Lago, Il Manifesto, 16 febbraio 2015

Il vento s’è por­tato via tutte le scioc­chezze dette e scritte per moti­vare, quat­tro anni fa, l’intervento Nato in Libia. La disin­for­ma­zione, le chiac­chiere anti-pacifiste dei guer­rieri da salotto, l’enfasi nazio­na­li­stica e pseudo-umanitaria che spin­geva l’allora oppo­si­zione di centro-sinistra a pre­mere su Ber­lu­sconi per far la guerra al suo ex-amico Ghed­dafi. E oggi la stessa reto­rica bel­li­ci­sta pro­rompe dalle parole di due mini­stri come Gen­ti­loni e Pinotti. Con la dif­fe­renza che il ber­sa­glio non è più un dit­ta­tore inde­bo­lito e desti­nato pre­ve­di­bil­mente a fare una fine orrenda, ma un nemico in larga parte sco­no­sciuto e che appare ubi­quo e capace di mobi­li­tare alleati in mezzo mondo, dal Magh­reb all’Iraq.

Natu­ral­mente, per quanto le parole dei due mini­stri siano state avven­tate, è impos­si­bile che si siano inven­tate di sana pianta. È quindi pro­ba­bile che il nostro governo stia già lavo­rando per un inter­vento armato che allon­tani i taglia­gole dalle coste della Libia. Que­sta volta a sof­fiare sul fuoco c’è anche Ber­lu­sconi, che mira, con la scusa dell’interesse nazio­nale, a met­tere in dif­fi­coltà Renzi e a far dimen­ti­care le sue respon­sa­bi­lità nel 2011.

E allora è neces­sa­rio ricor­dare ai nostri mini­stri con l’elmetto alcune ovvietà. L’Isis è in un’invenzione dell’Arabia sau­dita e della Tur­chia, in fun­zione anti-Assad, e degli Stati Uniti, che ini­zial­mente l’hanno appog­giato, per accor­gersi poi che era infi­ni­ta­mente più peri­co­loso del dit­ta­tore siriano. Le armi desti­nate a un’imbelle oppo­si­zione laica e filo-occidentale fini­vano nelle mani dei qae­di­sti e soprat­tutto dell’Isis che li ha sop­pian­tati. Lo stesso è suc­cesso in Iraq dove il Calif­fato è ormai la prin­ci­pale espres­sione della rivolta sun­nita con­tro il governo cor­rotto e inetto soste­nuto dagli occi­den­tali. E qual­cosa del genere avviene nella Libia attuale, risul­tato dell’intervento Nato. Dei due governi atte­stati a Tri­poli e Tobruk, il primo è vicino alle posi­zioni dell’Isis e il secondo resi­ste solo per­ché soste­nuto dall’Egitto.

In altri ter­mini, la Libia è già nelle mani del Califfo. Que­sto è il risul­tato del genio stra­te­gico di Sar­kozy e Came­ron, per non par­lare di Obama, e da noi dell’ignavia di Ber­lu­sconi e dell’incompetenza del Pd. Ma il punto è che una guerra in Libia è insen­sata e con­dur­rebbe a disa­stri inim­ma­gi­na­bili. I bom­bar­da­menti coin­vol­ge­reb­bero ine­vi­ta­bil­mente i civili, aumen­tando il risen­ti­mento con­tro gli occi­den­tali, men­tre un inter­vento a terra espor­rebbe le truppe Nato a rischi che nes­sun governo oggi vuol cor­rere. Ecco allora la geniale pro­po­sta di affi­darsi ad Alge­ria ed Egitto, o magari al Ciad o al Niger, cioè a far com­bat­tere quelli lì, arabi e afri­cani, in nostro nome. Un’idea vera­mente bril­lante che, oltre al suo signi­fi­cato neo-colonialista, ha il deci­sivo difetto di esporre i paesi con­fi­nanti con la Libia, con tutte le loro gatte da pelare, a con­trac­colpi interni impre­ve­di­bili e letali.

E allora? Ebbene, i disa­stri in Siria, Iraq e Libia sono il risul­tato di stra­te­gie neo-coloniali di lungo periodo, avviate subito dopo il 1989 e per­se­guite con sto­lido acca­ni­mento dai neo-cons ame­ri­cani e dai loro emuli euro­pei. Pen­sare di capo­vol­gere il qua­dro con qual­che bom­bar­da­mento sotto il para­sole Onu è pro­prio degno del nostro governo. Ma è l’intera Europa che sa solo sba­gliare, acca­nen­dosi con­tro la Gre­cia e aprendo un fronte con­tro Putin, come è già avve­nuto con l’Iran e poi, la Siria e la Libia.

La strada per libe­rare Tri­poli e le altre città costiere dall’Isis non passa da Sigo­nella, ma da un ripen­sa­mento stra­te­gico di cui però le can­cel­le­rie occi­den­tali sem­brano pro­prio incapaci.

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Renzi e Marchionne

Su Marchionne ha ragione Crozza, e fin qui, si sa, Crozza è un comico, la spara grossa, ci scappa la risata, magari ci si pensa su per qualche giorno e poi tutto finisce lì. Ma se, invece, Marchionne avesse ragione su Renzi, verso il quale continua a rivolgere parole di apprezzamento?Marchionne, però, è il capo di un’azienda che ha optato per politiche interne assolutamente autoritarie, riducendo di fatto i diritti sindacali, acquisiti da decenni, è il capo di un’azienda che non lancia un modello nuovo da anni (per quanto riguarda la parte italiana), che parla di investimenti faraonici dei quali, al momento, non si è visto un centesimo, che ha appena delocalizzato la propria sede operativa e che, da quest’anno verserà i propri tributi alla Corona britannica e non più allo Stato italiano. A quale titolo si permette quindi di giudicare? Non sarebbe forse il caso di avere un minimo di pudore, visti i massicci trasferimenti di cui Fiat, nel corso degli anni ha goduto da parte del nostro settore pubblico?

Dal canto suo, Renzi continua a magnificare il cosiddetto «modello tedesco» e, in politica economica sembra avere una linea approssimativa e confusa: da un lato attua piccole manovre redistributive, dall’altro vara provvedimenti a senso unico a favore delle imprese, non curandosi delle possibili ricadute in termini occupazionali (vedi abolizione dell’articolo 18, ma non solo).

A mio parere, questa impostazione è erronea, perché in Italia abbiamo un problema economico strutturale, che va quindi affrontato in maniera radicale, compiendo scelte anche dolorose, contro corrente. E non sta scritto da nessuna parte che debbano essere sempre e solo i lavoratori a pagarne il conto. Tornando al «modello tedesco in stile renziano», pare che si vogliano adottare solo alcuni provvedimenti (modalità di licenziamento, mini-jobs e midi-jobs), tralasciando gli aspetti più interessanti e “democratici”.

Un primo passo potrebbe essere quello di instaurare un diverso tipo di rapporto fra impresa e lavoratori, anche in vista di realizzare un vero e proprio sistema di economia della partecipazione. Ad esempio, sempre rimanendo in tema “modello tedesco”, si potrebbe trarre ispirazione dalla pratica della Mitbestimmung (in italiano codecisione). A questo proposito, riporto – dal libro “Manifesto per la democrazia economica” di Enrico Grazzini (Castelvecchi Editore, Roma 2014) – la parte relativa al confronto fra due politiche aziendali, diametralmente opposte, quella di Volkswagen e quella di FIat, manco a dirlo. Inutile dire che una funziona, l’altra un po’ meno: sta a voi scoprire quale e come leggendo di seguito.

Enrico Grazzini, Manifesto per la democrazia economica

FIAT E VOLKSWAGEN: DUE MODELLI ALTERNATIVI DI CORPORATE GOVERNANCE

È particolarmente significativo il confronto tra la Fiat italiana, che ha un modello di corporate governance e di relazioni sindacali di tipo anglosassone, e la Volkswagen, che è governata invece secondo i criteri della Mitbestimmung. Iniziamo illustrando il modello Fiat.

Nel 2011 in Italia, esattamente 60 anni dopo i referendum sindacali tedeschi del 1951 che promossero la «Montan Mitbestimmungsgesetz», Sergio Marchionne, il top manager italo-canadese che nel 2004 aveva salvato Fiat da un fallimento considerato certo e inevitabile, ha imposto un altro genere di referendum ai lavoratori italiani. I 5.431 dipendenti di Mirafiori sono stati chiamati a votare a un referendum che avrebbe deciso il futuro della Fiat – e forse anche dei rapporti sindacali – in Italia. Marchionne pose ai lavoratori un’alternativa (o un ricatto?) preciso: se avesse vinto il sì sarebbero state introdotte nuove condizioni sindacali e di lavoro (turni più lunghi, straordinari e sabati lavorativi con retribuzioni extra, modifica drastica delle rappresentanze sindacali, regolamentazione severa del diritto di sciopero) con la promessa (molto vaga e incerta) di nuovi investimenti da parte dell’azienda e della salvaguardia del posto di lavoro. I sindacati Cisl e Uil si schierarono per il sì. Se invece fosse prevalso il no, sostenuto solo dalla Fiom-Cgil, il numero uno della Fiat Marchionne annunciò che non ci sarebbe stato motivo di continuare a investire in Italia. In pratica minacciò di chiudere gran parte delle attività italiane procurando una disoccupazione di massa. «Aspettiamo di vedere cosa succederà», avvertì Marchionne. «Se il referendum non passerà ritorneremo a festeggiare negli Usa, a Detroit», dove Fiat aveva appena acquisito il controllo della Chrysler[^1]. Il sì vinse ma il 45% dei lavoratori rifiutò di barattare i suoi diritti con il posto di lavoro. Fiat comunque prevalse e successivamente estese il «modello Mirafiori» a tutte le sue fabbriche, abbandonò il contratto nazionale siglato con i sindacati e ritirò perfino l’adesione alla Confindustria, l’associazione italiana degli imprenditori. La Fiom, il sindacato maggioritario votato dai lavoratori, venne estromessa dalle fabbriche.

Marchionne aveva però quasi certamente già deciso che l’Italia non fosse più il centro della sua attività ma un’appendice abbastanza secondaria del suo impero semi-globale. Nel 2009 la multinazionale Fiat aveva infatti acquisito la Chrysler americana grazie all’aiuto statale di 4 miliardi di dollari da parte del Presidente George W. Bush e poi di altri 8,5 miliardi di dollari sborsati da Barack Obama. Marchionne non si fece scrupolo di minacciare il possibile abbandono dell’Italia: «Se volete che non facciamo l’investimento a Mirafiori ditelo e andiamo altrove», ha spiegato il top manager prima del referendum. «La scorsa settimana ero in Canada, a Brampton, per lanciare il Charger 300 della Chrysler. Là c’è un senso di riconoscimento per gli investimenti che abbiamo fatto e vogliono anche il terzo turno»[^2].

In effetti Marchionne ha molti buoni motivi per stabilire la sede del gruppo Fiat-Chrysler a Detroit: l’amministrazione Obama ha infatti deciso di attuare una precisa politica industriale per difendere l’occupazione e l’industria americana dell’auto, ed è stata quindi pronta a sostenere la Fiat-Chrysler con contributi di miliardi di dollari versati con il pretesto (legittimo) di finanziare lo sviluppo delle tecnologie verdi per la mobilità. Marchionne ha già anche deciso dove stabilire i nuovi insediamenti industriali: nei mercati che crescono di più, come il Brasile, la Cina e l’India, la Turchia, e in quelli dove la manodopera costa di meno e non ci sono forti vincoli ambientali, come la Serbia e la Polonia. In Italia Marchionne, senza che i lavoratori avessero nessuna voce e influenza sulle scelte aziendali, ha potuto quindi permettersi di indire referendum che, in sostanza, avanzavano un ricatto verso i lavoratori e i sindacati: o fate come dico o investo altrove. Poi però comunque, nonostante la vittoria ai suoi referendum, ha spostato gran parte degli investimenti fuori dall’Italia.

Confronto fra i dati 2011 delle due imprese considerate. Il dato di crescita della Fiat in confronto al 2010 è particolarmente elevato, ma a ciò contribuiscono diversi fattori, fra cui l’acquisizione della Chrysler

È forse meno noto il fatto che anche negli Usa Marchionne ha attuato la linea dura verso la United Automobile Workers, Uaw, il sindacato dell’automobile che aveva salvato la Chrysler grazie ai miliardi di dollari investiti dal suo fondo pensione nel capitale dell’industria in crisi. Nel 2011 Marchionne si è opposto all’ingresso nel board della Chrysler di Bob King, il presidente della Uaw. King aveva però tutto il diritto di chiedere di sedere nel board. Infatti non solo il fondo pensione della Uaw, dopo il fallimento della vecchia Chrysler, era stato costretto a investire miliardi di dollari per salvare la società automobilistica dal fallimento diventandone, insieme allo Stato, l’azionista di riferimento, ma, anche dopo che la Fiat aveva rilevato dal governo la maggioranza delle azioni ed era diventata azionista di controllo, la Uaw di King era rimasta la principale azionista di minoranza. Marchionne rifiutò la richiesta di King con queste motivazioni: «Il migliore intervento possibile per i sindacati è aiutare a scegliere il leader più capace di condurre la società […]. Capisco Bob King. Comprendo quello che dice ma dobbiamo essere molto attenti a non sovrastimare il valore della codeterminazione. La codeterminazione crea due organismi decisionali. Il board e il management prendono le decisioni e i sindacati siedono nel consiglio di sorveglianza e scelgono tra l’altro l’amministratore delegato. Ma questa è proprio la decisione più importante e difficile che può prendere il consiglio di sorveglianza. Se si fa la scelta giusta, non ci saranno problemi con il sindacato»[^3].

In sostanza Marchionne ha detto che non c’è bisogno che il sindacato sieda nel consiglio di sorveglianza… basta lui, come Ceo, a «proteggere» il sindacato… La reale motivazione del rifiuto è però che Marchionne temeva che King cercasse di organizzare i lavoratori a livello internazionale, anche in Messico, Brasile, Polonia, Turchia, e in Italia. Marchionne ha dimostrato di temere fortemente questo approccio internazionalista. «Per le multinazionali diventa quasi impossibile trovare la giusta combinazione della rappresentanza dei lavoratori per rappresentare effettivamente la forza lavoro in tutte le società del gruppo»[^4].

Il caso della Fiat e di Marchionne è esemplare. Infatti nel modello anglosassone di capitalismo il management, come rappresentante (peraltro spesso infedele) degli azionisti, ha il monopolio assoluto della gestione aziendale: il lavoro diventa una variabile subordinata e il sindacato che rappresenta i lavoratori un fattore di disturbo possibilmente da eliminare. L’azienda, per gli anglosassoni, non ha aspetti sociali, non è fatta per essere «socialmente buona», ma per creare ricchezza (in borsa, innanzitutto). In questo senso le affermazioni di Marchionne sono esplicite. Secondo lui, la Fiat non può assumersi la responsabilità dei problemi sociali. «Il mio ruolo è più limitato», ha affermato con modestia. «Io faccio vetture e cerco di venderle. Il problema sociale deve essere risolto da altri. Noi come Fiat possiamo solo creare le condizioni per lo sviluppo»[^5].

L’azienda non può soddisfare contemporaneamente troppi obiettivi, come quello di essere un buon partner sociale a livello locale e nazionale, di appagare i lavoratori, di salvaguardare l’ambiente e di dare profitti agli azionisti. Come diceva Milton Friedman, il principe degli economisti liberisti, l’unico obiettivo di un’azienda deve essere quello di massimizzare il valore per gli azionisti. Tutti gli altri aspetti sociali costituiscono dei vincoli per l’impresa. Anche i top manager, grazie alle stock option, diventano grandi azionisti: per esempio, nel caso Fiat, le stock option di Marchionne valgono potenzialmente centinaia di milioni di dollari – il valore reale dipende ovviamente dall’andamento del titolo Fiat in borsa – e hanno la funzione di allineare il suo interesse con quello della famiglia Agnelli (l’azionista di controllo della Fiat). In questa prospettiva, le regole dello Stato, le norme ambientali e le attività sindacali possono essere al massimo subite ma sono considerate come vincoli che pesano sull’impresa.

Nel modello anglosassone di corporate governance, l’azienda per essere competitiva deve ignorare i problemi sociali e ambientali, considerati come «esternalità», ovvero come effetti collaterali di cui l’azienda non è responsabile. Il problema è che nell’epoca delle globalizzazioni non è più vero che se va bene la Fiat va bene anche l’Italia, o che se va bene la Ford va bene anche l’America, come si diceva una volta. Le multinazionali hanno ormai una vita propria e autonoma e possono macinare utili e andare benissimo anche se il Paese in cui hanno la sede principale va male: purtroppo invece è vero che se va male la Fiat va male anche l’Italia.

Un confronto, tratto dal sito Nocensura.com

La storia recente è abbastanza nota: di fronte alla caduta del mercato dell’auto in Italia e in Europa, Marchionne ha deciso di diminuire drasticamente gli investimenti su Fiat Auto e di puntare invece sulla Chrysler americana, sul Brasile e sui mercati in forte sviluppo. Il piano Fabbrica Italia annunciato prima del referendum, che prometteva addirittura 20 miliardi di investimenti nel nostro Paese, è stato abbandonato: alcune fabbriche sono state chiuse, le altre ridimensionate, e sono migliaia i dipendenti in cassa integrazione e sulla via del licenziamento. È ormai praticamente certo che la sede centrale del gruppo Fiat-Chrysler, ovvero il centro dell’attività produttiva e finanziaria, verrà spostato a Detroit insieme alle attività core di ricerca e sviluppo (anche se la prima edizione del libro è dell’aprile 2014, probabilmente questo brano è stato scritto alcuni mesi prima. Fiat Chrysler Automobiles NV ha trasferito la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. Per maggiori informazioni Fiat diventa Fca e trasloca: sede legale in Olanda, quella fiscale in Gb, di Andrea Malan e Mario Cianflone, «Il Sole 24 Ore», 19 gennaio 2014, NdR.). L’Italia ha ormai perso un pezzo strategico della sua attività industriale.

Molto diverso è il caso della Volkswagen tedesca. Volkswagen nel suo consiglio di sorveglianza[^6] conta non solo i consiglieri dello Stato della Bassa Sassonia e degli azionisti privati ma anche metà dei membri eletti dai lavoratori. Così il gigante tedesco, pur essendo quotato in borsa come la Fiat, non può delocalizzare senza l’intesa con i lavoratori, e ha potuto superare le fasi critiche solo con il loro consenso. Il risultato è che Volkswagen domina il mercato mondiale dell’auto, apre fabbriche all’estero senza licenziare in Germania, e che i salari dei lavoratori tedeschi crescono. La società tedesca dell’auto – che una ventina di anni fa versava in condizioni di crisi analoghe a quelle della Fiat – nel 2011 ha macinato ricavi per 159 miliardi di euro, quasi tre volte Fiat-Chrysler, con profitti per 15,8 miliardi, più che raddoppiati rispetto al 2010.

Recentemente il giornalista economico Vittorio Malagutti si è recato a Wolsfburg, Germania del Nord, per fornire un’analisi aggiornata sul campo della situazione della Volkswagen, confrontata con quella della Fiat.

Dall’immensa fabbrica di Wolfsburg escono 800mila auto all’anno, circa 100mila in più di quanto produce in totale la Fiat nei suoi cinque impianti italiani […] negli anni scorsi il gruppo tedesco è riuscito a delocalizzare la produzione, dal Messico alla Cina via Slovacchia, senza tagliare un posto di lavoro in Germania […]. La paga base di un operaio si aggira, al netto di tasse e contributi, sui 2.700 euro, ma con qualche ora di straordinario è facile arrivare a quota 3mila. In altre parole, a Wolfsburg il lavoro alla catena di montaggio è pagato all’incirca il doppio rispetto a Mirafiori o nelle altre fabbriche Fiat. […] tutto si muove esattamente nella direzione opposta a quella indicata da Sergio Marchionne alla Fiat [,,,] qui il sindacato è forte, fortissimo. La IG Metall, a cui è iscritto il 95% circa degli operai di Wolfsburg, partecipa a ogni singola decisione aziendale […]. C’è il consiglio di fabbrica: 65 delegati in rappresentanza di tutti i reparti. E poi, al vertice del gruppo, il sindacato nomina la metà dei 20 membri del consiglio di sorveglianza, l’organo di controllo sulla gestione […]. Una garanzia su tutte: fino al 2014 l’organico degli stabilimenti tedeschi non potrà diminuire. In cambio, ormai da otto anni tutti i nuovi assunti lavorano 35 ore settimanali invece delle 33 degli operai con maggiore anzianità […]. I dipendenti dei sei stabilimenti tedeschi di Volkswagen si sono appena visti riconoscere un bonus di 7500 euro, calcolato sulla base dello straordinario aumento dei profitti del gruppo […]. Il gruppo tedesco naviga nell’oro e può permettersi di finanziare agevolmente investimenti per oltre il 5% del fatturato. In altre parole il denaro guadagnato non viene accumulato in cassaforte sotto forma di liquidità, come fa Marchionne ormai da anni […]. Regolazione minuziosa di ogni aspetto della vita aziendale contro deregulation; condivisione, invece di verticismo autoritario: questa, in breve, è la ricetta della cogestione, la Mitbestimmung che ha fatto grande l’industria tedesca e continua, pur tra mille difficoltà, a produrre profitti e benessere[^7].

È chiaro che la democrazia industriale permette ai lavoratori tedeschi di difendere meglio l’occupazione, il reddito e il potere sindacale; e consente anche di sviluppare produzioni ecologicamente sostenibili (la Germania ha rinunciato al nucleare anche se il gigante Siemens è tra i leader mondiali del settore).

In Italia purtroppo anche quella parte del mondo politico, sindacale e intellettuale che spesso mostra di ammirare e di volere emulare il «modello tedesco» – per esempio per quanto riguarda le norme sui licenziamenti – mostra di ignorare la Mitbestimmung e non ha neppure in agenda le questioni strategiche della democrazia industriale. Eppure la Mitbestimmung è il vero fattore decisivo (anche se volutamente sottaciuto) che ha reso la Germania leader nel mondo.

Tuttavia è chiaro anche che il merito del successo Volkswagen e dell’industria tedesca non è solo della codeterminazione: le politiche industriali condotte dai governi tedeschi si sono dimostrate molto efficaci, e anzi indispensabili in tempi di crisi. Il governo tedesco ha puntato sull’auto come settore trainante dell’industria germanica nel mondo. E ha vinto la sua scommessa. Anche Obama ha salvato l’industria dell’auto ormai a picco in America; mentre l’Italia, che si affida esclusivamente al mercato e non ha politiche industriali, si deindustrializza e si impoverisce.

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NOTE

[^1]: V. Roberto Barone, Fiat è salita al 25% di Chrysler, «Quattroruote», 11 gennaio 2011.
[^2]: V. Gilda Ferrari, La minaccia in vista del referendum. Marchionne: se passa il no ce ne andiamo in Canada, «Il Secolo XIX», 11 gennaio 2011.
[^3]: Don’t Hold Your Breath For Uaw Board Seats, Thetruthaboutcars.com, 4 agosto 2011.
[^4]: Ibidem,
[^5]: V. Gilda Ferrari, La minaccia in vista del referendum. Marchionne: se passa il no ce ne andiamo in Canada, «Il Secolo XIX», 11 gennaio 2011.
[^6]: Il consiglio di sorveglianza è inserito nel quadro del cosiddetto “sistema dualistico”, ovvero un sistema di controllo delle società per azioni caratterizzato dalla presenza di due distinti organi collegiali (il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione) che si contrappone al cosiddetto “sistema monistico”, basato su un solo organo collegiale, il consiglio di amministrazione. V. voce su Wikipedia.
[^7]: Vittorio Malagutti, Viaggio nel cuore della Volkswagen, la fabbrica di auto che vende auto, «Il Fatto Quotidiano», 18 marzo 2012.

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