Dal canto suo, Renzi continua a magnificare il cosiddetto «modello tedesco» e, in politica economica sembra avere una linea approssimativa e confusa: da un lato attua piccole manovre redistributive, dall’altro vara provvedimenti a senso unico a favore delle imprese, non curandosi delle possibili ricadute in termini occupazionali (vedi abolizione dell’articolo 18, ma non solo).
A mio parere, questa impostazione è erronea, perché in Italia abbiamo un problema economico strutturale, che va quindi affrontato in maniera radicale, compiendo scelte anche dolorose, contro corrente. E non sta scritto da nessuna parte che debbano essere sempre e solo i lavoratori a pagarne il conto. Tornando al «modello tedesco in stile renziano», pare che si vogliano adottare solo alcuni provvedimenti (modalità di licenziamento, mini-jobs e midi-jobs), tralasciando gli aspetti più interessanti e “democratici”.
Un primo passo potrebbe essere quello di instaurare un diverso tipo di rapporto fra impresa e lavoratori, anche in vista di realizzare un vero e proprio sistema di economia della partecipazione. Ad esempio, sempre rimanendo in tema “modello tedesco”, si potrebbe trarre ispirazione dalla pratica della Mitbestimmung (in italiano codecisione). A questo proposito, riporto – dal libro “Manifesto per la democrazia economica” di Enrico Grazzini (Castelvecchi Editore, Roma 2014) – la parte relativa al confronto fra due politiche aziendali, diametralmente opposte, quella di Volkswagen e quella di FIat, manco a dirlo. Inutile dire che una funziona, l’altra un po’ meno: sta a voi scoprire quale e come leggendo di seguito.
Enrico Grazzini, Manifesto per la democrazia economica
FIAT E VOLKSWAGEN: DUE MODELLI ALTERNATIVI DI CORPORATE GOVERNANCE
È particolarmente significativo il confronto tra la Fiat italiana, che ha un modello di corporate governance e di relazioni sindacali di tipo anglosassone, e la Volkswagen, che è governata invece secondo i criteri della Mitbestimmung. Iniziamo illustrando il modello Fiat.
Nel 2011 in Italia, esattamente 60 anni dopo i referendum sindacali tedeschi del 1951 che promossero la «Montan Mitbestimmungsgesetz», Sergio Marchionne, il top manager italo-canadese che nel 2004 aveva salvato Fiat da un fallimento considerato certo e inevitabile, ha imposto un altro genere di referendum ai lavoratori italiani. I 5.431 dipendenti di Mirafiori sono stati chiamati a votare a un referendum che avrebbe deciso il futuro della Fiat – e forse anche dei rapporti sindacali – in Italia. Marchionne pose ai lavoratori un’alternativa (o un ricatto?) preciso: se avesse vinto il sì sarebbero state introdotte nuove condizioni sindacali e di lavoro (turni più lunghi, straordinari e sabati lavorativi con retribuzioni extra, modifica drastica delle rappresentanze sindacali, regolamentazione severa del diritto di sciopero) con la promessa (molto vaga e incerta) di nuovi investimenti da parte dell’azienda e della salvaguardia del posto di lavoro. I sindacati Cisl e Uil si schierarono per il sì. Se invece fosse prevalso il no, sostenuto solo dalla Fiom-Cgil, il numero uno della Fiat Marchionne annunciò che non ci sarebbe stato motivo di continuare a investire in Italia. In pratica minacciò di chiudere gran parte delle attività italiane procurando una disoccupazione di massa. «Aspettiamo di vedere cosa succederà», avvertì Marchionne. «Se il referendum non passerà ritorneremo a festeggiare negli Usa, a Detroit», dove Fiat aveva appena acquisito il controllo della Chrysler[^1]. Il sì vinse ma il 45% dei lavoratori rifiutò di barattare i suoi diritti con il posto di lavoro. Fiat comunque prevalse e successivamente estese il «modello Mirafiori» a tutte le sue fabbriche, abbandonò il contratto nazionale siglato con i sindacati e ritirò perfino l’adesione alla Confindustria, l’associazione italiana degli imprenditori. La Fiom, il sindacato maggioritario votato dai lavoratori, venne estromessa dalle fabbriche.
Marchionne aveva però quasi certamente già deciso che l’Italia non fosse più il centro della sua attività ma un’appendice abbastanza secondaria del suo impero semi-globale. Nel 2009 la multinazionale Fiat aveva infatti acquisito la Chrysler americana grazie all’aiuto statale di 4 miliardi di dollari da parte del Presidente George W. Bush e poi di altri 8,5 miliardi di dollari sborsati da Barack Obama. Marchionne non si fece scrupolo di minacciare il possibile abbandono dell’Italia: «Se volete che non facciamo l’investimento a Mirafiori ditelo e andiamo altrove», ha spiegato il top manager prima del referendum. «La scorsa settimana ero in Canada, a Brampton, per lanciare il Charger 300 della Chrysler. Là c’è un senso di riconoscimento per gli investimenti che abbiamo fatto e vogliono anche il terzo turno»[^2].
In effetti Marchionne ha molti buoni motivi per stabilire la sede del gruppo Fiat-Chrysler a Detroit: l’amministrazione Obama ha infatti deciso di attuare una precisa politica industriale per difendere l’occupazione e l’industria americana dell’auto, ed è stata quindi pronta a sostenere la Fiat-Chrysler con contributi di miliardi di dollari versati con il pretesto (legittimo) di finanziare lo sviluppo delle tecnologie verdi per la mobilità. Marchionne ha già anche deciso dove stabilire i nuovi insediamenti industriali: nei mercati che crescono di più, come il Brasile, la Cina e l’India, la Turchia, e in quelli dove la manodopera costa di meno e non ci sono forti vincoli ambientali, come la Serbia e la Polonia. In Italia Marchionne, senza che i lavoratori avessero nessuna voce e influenza sulle scelte aziendali, ha potuto quindi permettersi di indire referendum che, in sostanza, avanzavano un ricatto verso i lavoratori e i sindacati: o fate come dico o investo altrove. Poi però comunque, nonostante la vittoria ai suoi referendum, ha spostato gran parte degli investimenti fuori dall’Italia.
Confronto fra i dati 2011 delle due imprese considerate. Il dato di crescita della Fiat in confronto al 2010 è particolarmente elevato, ma a ciò contribuiscono diversi fattori, fra cui l’acquisizione della Chrysler
È forse meno noto il fatto che anche negli Usa Marchionne ha attuato la linea dura verso la United Automobile Workers, Uaw, il sindacato dell’automobile che aveva salvato la Chrysler grazie ai miliardi di dollari investiti dal suo fondo pensione nel capitale dell’industria in crisi. Nel 2011 Marchionne si è opposto all’ingresso nel board della Chrysler di Bob King, il presidente della Uaw. King aveva però tutto il diritto di chiedere di sedere nel board. Infatti non solo il fondo pensione della Uaw, dopo il fallimento della vecchia Chrysler, era stato costretto a investire miliardi di dollari per salvare la società automobilistica dal fallimento diventandone, insieme allo Stato, l’azionista di riferimento, ma, anche dopo che la Fiat aveva rilevato dal governo la maggioranza delle azioni ed era diventata azionista di controllo, la Uaw di King era rimasta la principale azionista di minoranza. Marchionne rifiutò la richiesta di King con queste motivazioni: «Il migliore intervento possibile per i sindacati è aiutare a scegliere il leader più capace di condurre la società […]. Capisco Bob King. Comprendo quello che dice ma dobbiamo essere molto attenti a non sovrastimare il valore della codeterminazione. La codeterminazione crea due organismi decisionali. Il board e il management prendono le decisioni e i sindacati siedono nel consiglio di sorveglianza e scelgono tra l’altro l’amministratore delegato. Ma questa è proprio la decisione più importante e difficile che può prendere il consiglio di sorveglianza. Se si fa la scelta giusta, non ci saranno problemi con il sindacato»[^3].
In sostanza Marchionne ha detto che non c’è bisogno che il sindacato sieda nel consiglio di sorveglianza… basta lui, come Ceo, a «proteggere» il sindacato… La reale motivazione del rifiuto è però che Marchionne temeva che King cercasse di organizzare i lavoratori a livello internazionale, anche in Messico, Brasile, Polonia, Turchia, e in Italia. Marchionne ha dimostrato di temere fortemente questo approccio internazionalista. «Per le multinazionali diventa quasi impossibile trovare la giusta combinazione della rappresentanza dei lavoratori per rappresentare effettivamente la forza lavoro in tutte le società del gruppo»[^4].
Il caso della Fiat e di Marchionne è esemplare. Infatti nel modello anglosassone di capitalismo il management, come rappresentante (peraltro spesso infedele) degli azionisti, ha il monopolio assoluto della gestione aziendale: il lavoro diventa una variabile subordinata e il sindacato che rappresenta i lavoratori un fattore di disturbo possibilmente da eliminare. L’azienda, per gli anglosassoni, non ha aspetti sociali, non è fatta per essere «socialmente buona», ma per creare ricchezza (in borsa, innanzitutto). In questo senso le affermazioni di Marchionne sono esplicite. Secondo lui, la Fiat non può assumersi la responsabilità dei problemi sociali. «Il mio ruolo è più limitato», ha affermato con modestia. «Io faccio vetture e cerco di venderle. Il problema sociale deve essere risolto da altri. Noi come Fiat possiamo solo creare le condizioni per lo sviluppo»[^5].
L’azienda non può soddisfare contemporaneamente troppi obiettivi, come quello di essere un buon partner sociale a livello locale e nazionale, di appagare i lavoratori, di salvaguardare l’ambiente e di dare profitti agli azionisti. Come diceva Milton Friedman, il principe degli economisti liberisti, l’unico obiettivo di un’azienda deve essere quello di massimizzare il valore per gli azionisti. Tutti gli altri aspetti sociali costituiscono dei vincoli per l’impresa. Anche i top manager, grazie alle stock option, diventano grandi azionisti: per esempio, nel caso Fiat, le stock option di Marchionne valgono potenzialmente centinaia di milioni di dollari – il valore reale dipende ovviamente dall’andamento del titolo Fiat in borsa – e hanno la funzione di allineare il suo interesse con quello della famiglia Agnelli (l’azionista di controllo della Fiat). In questa prospettiva, le regole dello Stato, le norme ambientali e le attività sindacali possono essere al massimo subite ma sono considerate come vincoli che pesano sull’impresa.
Nel modello anglosassone di corporate governance, l’azienda per essere competitiva deve ignorare i problemi sociali e ambientali, considerati come «esternalità», ovvero come effetti collaterali di cui l’azienda non è responsabile. Il problema è che nell’epoca delle globalizzazioni non è più vero che se va bene la Fiat va bene anche l’Italia, o che se va bene la Ford va bene anche l’America, come si diceva una volta. Le multinazionali hanno ormai una vita propria e autonoma e possono macinare utili e andare benissimo anche se il Paese in cui hanno la sede principale va male: purtroppo invece è vero che se va male la Fiat va male anche l’Italia.
Un confronto, tratto dal sito Nocensura.com
La storia recente è abbastanza nota: di fronte alla caduta del mercato dell’auto in Italia e in Europa, Marchionne ha deciso di diminuire drasticamente gli investimenti su Fiat Auto e di puntare invece sulla Chrysler americana, sul Brasile e sui mercati in forte sviluppo. Il piano Fabbrica Italia annunciato prima del referendum, che prometteva addirittura 20 miliardi di investimenti nel nostro Paese, è stato abbandonato: alcune fabbriche sono state chiuse, le altre ridimensionate, e sono migliaia i dipendenti in cassa integrazione e sulla via del licenziamento. È ormai praticamente certo che la sede centrale del gruppo Fiat-Chrysler, ovvero il centro dell’attività produttiva e finanziaria, verrà spostato a Detroit insieme alle attività core di ricerca e sviluppo (anche se la prima edizione del libro è dell’aprile 2014, probabilmente questo brano è stato scritto alcuni mesi prima. Fiat Chrysler Automobiles NV ha trasferito la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. Per maggiori informazioni Fiat diventa Fca e trasloca: sede legale in Olanda, quella fiscale in Gb, di Andrea Malan e Mario Cianflone, «Il Sole 24 Ore», 19 gennaio 2014, NdR.). L’Italia ha ormai perso un pezzo strategico della sua attività industriale.
Molto diverso è il caso della Volkswagen tedesca. Volkswagen nel suo consiglio di sorveglianza[^6] conta non solo i consiglieri dello Stato della Bassa Sassonia e degli azionisti privati ma anche metà dei membri eletti dai lavoratori. Così il gigante tedesco, pur essendo quotato in borsa come la Fiat, non può delocalizzare senza l’intesa con i lavoratori, e ha potuto superare le fasi critiche solo con il loro consenso. Il risultato è che Volkswagen domina il mercato mondiale dell’auto, apre fabbriche all’estero senza licenziare in Germania, e che i salari dei lavoratori tedeschi crescono. La società tedesca dell’auto – che una ventina di anni fa versava in condizioni di crisi analoghe a quelle della Fiat – nel 2011 ha macinato ricavi per 159 miliardi di euro, quasi tre volte Fiat-Chrysler, con profitti per 15,8 miliardi, più che raddoppiati rispetto al 2010.
Recentemente il giornalista economico Vittorio Malagutti si è recato a Wolsfburg, Germania del Nord, per fornire un’analisi aggiornata sul campo della situazione della Volkswagen, confrontata con quella della Fiat.
Dall’immensa fabbrica di Wolfsburg escono 800mila auto all’anno, circa 100mila in più di quanto produce in totale la Fiat nei suoi cinque impianti italiani […] negli anni scorsi il gruppo tedesco è riuscito a delocalizzare la produzione, dal Messico alla Cina via Slovacchia, senza tagliare un posto di lavoro in Germania […]. La paga base di un operaio si aggira, al netto di tasse e contributi, sui 2.700 euro, ma con qualche ora di straordinario è facile arrivare a quota 3mila. In altre parole, a Wolfsburg il lavoro alla catena di montaggio è pagato all’incirca il doppio rispetto a Mirafiori o nelle altre fabbriche Fiat. […] tutto si muove esattamente nella direzione opposta a quella indicata da Sergio Marchionne alla Fiat [,,,] qui il sindacato è forte, fortissimo. La IG Metall, a cui è iscritto il 95% circa degli operai di Wolfsburg, partecipa a ogni singola decisione aziendale […]. C’è il consiglio di fabbrica: 65 delegati in rappresentanza di tutti i reparti. E poi, al vertice del gruppo, il sindacato nomina la metà dei 20 membri del consiglio di sorveglianza, l’organo di controllo sulla gestione […]. Una garanzia su tutte: fino al 2014 l’organico degli stabilimenti tedeschi non potrà diminuire. In cambio, ormai da otto anni tutti i nuovi assunti lavorano 35 ore settimanali invece delle 33 degli operai con maggiore anzianità […]. I dipendenti dei sei stabilimenti tedeschi di Volkswagen si sono appena visti riconoscere un bonus di 7500 euro, calcolato sulla base dello straordinario aumento dei profitti del gruppo […]. Il gruppo tedesco naviga nell’oro e può permettersi di finanziare agevolmente investimenti per oltre il 5% del fatturato. In altre parole il denaro guadagnato non viene accumulato in cassaforte sotto forma di liquidità, come fa Marchionne ormai da anni […]. Regolazione minuziosa di ogni aspetto della vita aziendale contro deregulation; condivisione, invece di verticismo autoritario: questa, in breve, è la ricetta della cogestione, la Mitbestimmung che ha fatto grande l’industria tedesca e continua, pur tra mille difficoltà, a produrre profitti e benessere[^7].
È chiaro che la democrazia industriale permette ai lavoratori tedeschi di difendere meglio l’occupazione, il reddito e il potere sindacale; e consente anche di sviluppare produzioni ecologicamente sostenibili (la Germania ha rinunciato al nucleare anche se il gigante Siemens è tra i leader mondiali del settore).
In Italia purtroppo anche quella parte del mondo politico, sindacale e intellettuale che spesso mostra di ammirare e di volere emulare il «modello tedesco» – per esempio per quanto riguarda le norme sui licenziamenti – mostra di ignorare la Mitbestimmung e non ha neppure in agenda le questioni strategiche della democrazia industriale. Eppure la Mitbestimmung è il vero fattore decisivo (anche se volutamente sottaciuto) che ha reso la Germania leader nel mondo.
Tuttavia è chiaro anche che il merito del successo Volkswagen e dell’industria tedesca non è solo della codeterminazione: le politiche industriali condotte dai governi tedeschi si sono dimostrate molto efficaci, e anzi indispensabili in tempi di crisi. Il governo tedesco ha puntato sull’auto come settore trainante dell’industria germanica nel mondo. E ha vinto la sua scommessa. Anche Obama ha salvato l’industria dell’auto ormai a picco in America; mentre l’Italia, che si affida esclusivamente al mercato e non ha politiche industriali, si deindustrializza e si impoverisce.
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NOTE
[^1]: V. Roberto Barone, Fiat è salita al 25% di Chrysler, «Quattroruote», 11 gennaio 2011.
[^2]: V. Gilda Ferrari, La minaccia in vista del referendum. Marchionne: se passa il no ce ne andiamo in Canada, «Il Secolo XIX», 11 gennaio 2011.
[^3]: Don’t Hold Your Breath For Uaw Board Seats, Thetruthaboutcars.com, 4 agosto 2011.
[^4]: Ibidem,
[^5]: V. Gilda Ferrari, La minaccia in vista del referendum. Marchionne: se passa il no ce ne andiamo in Canada, «Il Secolo XIX», 11 gennaio 2011.
[^6]: Il consiglio di sorveglianza è inserito nel quadro del cosiddetto “sistema dualistico”, ovvero un sistema di controllo delle società per azioni caratterizzato dalla presenza di due distinti organi collegiali (il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione) che si contrappone al cosiddetto “sistema monistico”, basato su un solo organo collegiale, il consiglio di amministrazione. V. voce su Wikipedia.
[^7]: Vittorio Malagutti, Viaggio nel cuore della Volkswagen, la fabbrica di auto che vende auto, «Il Fatto Quotidiano», 18 marzo 2012.