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Archive for luglio 2014

Qualche giorno fa avevo rivolto un appello agli insegnanti di inglese a essere molto severi con i loro studenti.

Parlare in inglese, per un italiano – ma anche per un francese o uno spagnolo – è assai pericoloso, dato che ci sono parole che assomigliano, e molto, alle corrispondenti latine, ma hanno significato molto diverso.

Ad esempio, se vogliamo parlare di “affari”, che in inglese si traduce “business”, potremmo essere tentati di adoperare il termine “affair”, che ha tutt’altro significato, visto che si riferisce agli “affari di cuore”. Possiamo facilmente immaginare cosa capirebbe un inglese o un americano…

Il problema è grave e non ha riguardato soltanto Matteo Renzi. Nel libro di Marco Travaglio e Peter Gomez del 2006 ,Le mille balle blu. vengono dedicate alcune pagine alle gaffes che l’ex-presidente del Consiglio Berlusconi fece parlando senza interprete.

Per ovviare ai possibili strafalcioni, o quantomeno farsi due risate, in Rete si trova il libro di Giancarlo Livraghi (scrittore e pioniere della comunicazione pubblicitaria in Italia): Ambiguità fra l’italiano e l’inglese. Trecentottanta esempi di errori di traduzione, difficoltà, incomprensioni, sciocchezze e bizzarrie.

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Per giustificarsi, il terrorismo di Stato produce terroristi: semina odio e raccoglie alibi. Tutto sta ad indicare che questa carneficina a Gaza, che secondo i suoi autori vuole eliminare i terroristi, riuscirà a moltiplicarli.

Dal 1948, i palestinesi vivono condannati ad una umiliazione perpetua. Non possono nemmeno respirare senza permesso. Hanno perso la loro patria, le loro terre, la loro acqua, la loro libertà il loro tutto. Non hanno nemmeno il diritto di eleggere i loro governanti. Quando votano chi non devono votare vengono puniti.

Gaza sta subendo una punizione. Da quando Hamas ha vinto in modo regolare le elezioni del 2006, è diventata una trappola senza uscita. Qualcosa di simile era successo anche nel 1932, quando il Partito Comunista trionfò nelle elezioni de El Salvador. Zuppi di sangue i salvadoregni dovettero espiare la loro cattiva condotta e da allora hanno dovuto vivere sottomessi alle dittature militari. La democrazia è un lusso che non tutti meritano.

Sono figli dell’impotenza i razzi rudimentali che i militanti di Hamas, assediati a Gaza, lanciano con scarsa precisione sulle terre che un tempo erano dei palestinesi e che l’occupazione israeliana ha usurpato. E la disperazione, al limite della follia suicida, è la madre delle bravate che negano il diritto all’esistenza d’Israele. Urla senza alcuna efficacia. Mentre la efficacissima guerra di sterminio sta negando, da anni, il diritto all’esistenza della Palestina. Ormai rimane poco della Palestina. Giorno dopo giorno, Israele la sta cancellando dalle mappe. I coloni invadono, e dietro di loro i soldati ne modificano i confini. I proiettili consacrano l’espropriazione alla legittima difesa. Non esiste guerra aggressiva che non dichiari di essere una guerra difensiva. Hitler invase la Polonia per evitare che la Polonia invadesse la Germania. Bush ha invaso l’Irak per evitare che l’Irak invadesse il mondo. In ciascuna delle sue guerre difensive, Israele si è mangiato un pezzo della Palestina e i banchetti vanno avanti. Questo divorare è giustificato dai titoli di proprietà che la Bibbia ha ceduto, per i duemila anni di persecuzione che il popolo giudaico ha subito, e per il panico che i palestinesi creano all’assedio.

Israele è il paese che non ha mai rispettato le raccomandazioni, né le risoluzioni delle Nazioni Unite, che non ha mai raccolto le sentenze dei tribunali internazionali, che si prende gioco delle leggi internazionali, è l’unico paese che ha legalizzato la tortura dei prigionieri. Chi gli ha regalato il diritto di negare il diritto? Da dove viene l’impunità con cui Israele sta eseguendo la mattanza a Gaza? Il governo spagnolo non avrebbe potuto bombardare impunemente il Paese Basco per eliminare l’ETA. Il governo britannico non avrebbe potuto distruggere l’Irlanda per liquidare l’IRA. Per caso la tragedia dell’Olocausto implica una polizza di eterna impunità? O questa luce verde proviene dalla potenza capetto che ha in Israele il più incondizionato dei suoi vassalli? L’esercito israeliano, il più moderno e sofisticato al mondo, sa chi ammazza. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili si chiamano danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su 10 danni collaterali, 3 sono bambini. E sono migliaia i mutilati, vittime della tecnologia dello sventramento umano che l’industria militare sta provando con successo in questa operazione di pulizia etnica. E come sempre, è sempre la stessa storia: a Gaza, cento a uno. A fronte di cento palestinesi morti, un israeliano. Persone pericolose, avverte l’altro bombardamento, a cura dei grandi media di manipolazione, che ci invitano a credere che una vita israeliana vale cento vite palestinesi. Questi stessi media ci invitano a credere che sono umanitarie le duecento testate atomiche d’Israele e che una potenza nucleare chiamata Iran è stata quella che ha raso al suolo Hiroshima e Nagasaki.

La cosiddetta Comunità Internazionale esiste?

Oltre ad essere un club di commercianti, banchieri e guerrieri, cos’altro è? Cos’altro è oltre a un nome artistico che gli USA usano per le loro performance teatrali?

Di fronte alla tragedia di Gaza, l’ipocrisia mondiale ancora una volta si fa notare. Come sempre l’indifferenza, i discorsi di circostanza, le vuote dichiarazioni, le declamazioni altisonanti, le posizioni ambigue, rendono tributo alla sacra impunità.

Della tragedia di Gaza, i paesi arabi se ne lavano le mani. Come sempre. E come sempre, i paesi europei se le sfregano le mani.

La vecchia Europa, così piena di bellezza e perversità, sparge qualche lacrima mentre segretamente celebra questa tiro maestro. Perché la caccia agli ebrei è sempre stata un’abitudine europea, ma da più di mezzo secolo, questo debito storico lo si sta facendo pagare ai palestinesi, anch’essi semiti, che mai sono stati né lo sono, antisemiti. Stanno pagando con il sangue contante e sonante un conto non loro.

Eduardo Galleano

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L’evo moderno è finito. Comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato.

Ennio Flaiano

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Voglio rivolgere un accorato appello a tutti gli insegnanti di inglese della Repubblica: siate severi, anzi severissimi! Voi oggi non lo sapete, ma chiunque, fra quelli che vi siedono davanti nei banchi un giorno potrebbe ricoprire altissime cariche istituzionali e, avendo preso buoni voti a scuola, sentirsi in grado di poter sostenere un monologo in lingua straniera.

Con risultati a dir poco esilaranti.

Vi lascio con questo bellissimo articolo di Megachip – Democrazia nella comunicazione: Il discorso di Matteo Renzi così come l’ha capito un inglese.

PS: va bene che c’è la crisi, va bene che c’è la spending review, va bene che dare un’immagine moderna e internazionale è cool, ma a tutto c’è un limite e un interprete possiamo ancora, come popolo italiano, permettercelo.

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Mi sono riadattato agli occhiali (che la patente, a me, rende obbligati, ormai,
in un paio solo di giorni: vedo tutto più netto: (ma niente mi è, per questo,
diventato migliore, in verità: un semaforo è sempre un semaforo, un marciapiede
è un marciapiede: e io sono sempre io, così)
(quanto al doloroso senso di capogiro,
vaticinato, con l’emicrania, da un Istituto Ottico di corso Buenos Aires, al quale
mi sono rivolto, questa volta, l’ho sperimentato e l’ho superato): (l’oculista
affermava che, con il tempo, io mi ero costruito una mia rappresentazione arbitraria
della realtà, adesso destinata, con le lenti, a sfasciarsi di colpo):
e ho potuto
sperare, per un attimo, di potermi rifare, a poco prezzo, una vita e una vista)

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Oggi ho incontrato un’amica genovese che da anni si è trasferita a vivere alle Canarie, così mi è venuta voglia di fare una piccola ricerca e scrivere qualcosa sulla storia di queste isole, delle quali in effetti sapevo soltanto l’ubicazione geografica e il nome del navigatore Lanzerotto Malocello (da cui prende il nome l’isola di Lanzarote) che le scoprì nel XIV secolo.

Ad esempio non sapevo che Lanzerotto (o Lanzarotto) Malocello (o Maloxello) facesse parte di una antica e nobile famiglia genovese, fra le più note per le cariche ricoperte e per aver compiuto imprese memorabili. Non lo sapevo perché, a differenza di altre famiglie – i Doria, gli Spinola, ecc. – i Malocello non hanno lasciato palazzi, chiese, monumenti. O almeno, se esistono queste vestigia, io non ne sono a conoscenza.

Ma soprattutto non sapevo che la scoperta delle isole Canarie andasse inquadrata in un contesto più ampio, ovvero quello di una Repubblica Marinara potente che vedeva piano piano precludersi le vie di comunicazione verso l’Oriente a causa di una concorrenza sui mari sempre più intensa: Venezia, Bisanzio, i Musulmani. E i genovesi, che evidentemente erano attenti al soldo anche allora, cercarono di trovare altre rotte, altre vie per alimentare i propri commerci.

In quegli anni (la nostra storia inizia verso la fine del Duecento), la scoperta della bussola e il grande impulso dato alla tecnica cartografica, avevano fatto sì che si potesse pensare di circumnavigare l’Africa e arrivare così ai ricchi mercati asiatici delle spezie e della seta per via di mare. Anche allora, quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, era un’area di grande instabilità politica.

Nella primavera del 1291, i due fratelli Vadino e Ugolino Vivaldi, a bordo di due galee salparono dal porto di Genova alla volta delle Indie e della Cina. I loro concittadini seguirono la spedizione fin quando questa si svolse in acque o lungo le coste conosciute, quasi a voler rimarcare le grandi aspettative che accompagnavano questo viaggio. Ma, a un certo punto della loro spedizione, dei fratelli Vivaldi si persero le tracce e di loro non si ebbero mai più notizie.

Fu così che qualche anno dopo, nel 1312, Lanzerotto Malocello partì da Genova alla ricerca delle tracce della spedizione precedente. E con lui ha inizio la storia moderna delle isole Canarie, poiché approdò nella più settentrionale delle sette isole maggiori che, insieme ad altre due minori, compongono l’arcipelago.

Se vogliamo essere precisi da un punto di vista storico, quella di Malocello non fu una scoperta, bensì una riscoperta, poiché sembra che due popoli antichi di grandi navigatori, ovvero i fenici e i cartaginesi, ne conoscessero l’esistenza. In maniera sommaria, ne parlano Plinio il Vecchio e Claudio Tolomeo e si ritiene che le isole Canarie abbiano dato vita al mito greco del giardino delle Esperidi.

La prima menzione dell’Insula de Lanzarotus Marocellus, l’attuale Lanzarote, risale alla carta disegnata nel 1339 dal geografo medievale Angelino Dulcert nella quale si vede l’arcipelago.

Ma torniamo per un attimo alla storia della famiglia Malocello, perché è piuttosto interessante, così come viene riportata sul sito del Comitato promotore per le celebrazioni del VII Centenario della Scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello (1312 – 2012). Più ufficiale di così…

Lanzerotto Malocello

Nel 1235 Carbone Malocello comandava 12 navi e riuniva a bordo di esse tutti i genovesi di ceuta per esigere da l sultano riparazioni per depredazioni commesse ai loro danni. Una femmina della casata andò sposa nel secolo XIII ad un Giudice regnante ad Arborea. Un Jacopo fu l’ammiraglio genovese che fu sconfitto dai Pisani nel 1241 nella battaglia del Giglio. Nella villa di Pietro Malocello fu avvelenato il doge Simon Boccanegra.

Si tramanda che Lanzarotto Malocello abbia avuto i propri natali in Varazze [e forse è per questo che a Genova non viene abbastanza ricordato, NdR], ove oggi esiste una antica via del centro dedicata al suo nome. Alcuni membri della famiglia presero servizio in Francia come capitani di galee verso il 1340 e, nel tempo,francesizzarono il loro nome in “Maloisel”.

Il francese Charles De la Ronciere, uno dei più grandi esperti e studiosi in materia, rese noto che secondo un documento della Biblioteca Nazionale di Parigi, nell’anno 1659 una famiglia di gentiluomini normanni De Maloisel avrebbe rivendicato al merito di un suo antenato, Lancelot Maloisel, la qualità di primo scopritore delle isole Canarie, attestando che egli sarebbe approdato nel 1312 in un’isola che gli indigeni chiamavano Titeroygatra, nella quale avrebbe vissuto e regnato, avendo residenza in un castello, per oltre venti anni, sino a quando gli stessi indigeni, con l’aiuto dei vicini delle altre isole, non lo avrebbero scacciato.

Anche l’anonimo Frate francescano spagnolo, autore del notissimo “Libro del Conoscimiento” parla di Malocello, asserendo però che questi sarebbe stato ucciso dagli isolani.

Lo sbarco di Lanzarotto Malocello alle Canarie, per tutta una serie di motivi e di considerazioni, prevalenti e maggioritarie tra gli studiosi, puo’ collocarsi temporalmente nell’anno 1312.

Egli, partito da Genova alla ricerca dei coraggiosi fratelli Vivaldi, giunse nell’isola allla quale diede il suo nome,la Lanzarota (oggi Lanzarote), situata a sud della più piccola “Alegranza”, se ne impadronì e, a presidio del proprio dominio e di quello della Repubblica di Genova, vi costruì un castello, di cui due posteriori avventurieri francesi, Juan de Betancourt e Gadifer de la Salle, al loro arrivo a Lanzarote nel 1402, trovarono i resti diroccati.

Come già detto, però, è solo nel 1339 che appare la prima carta che menziona la “Insula de Lanzaroto Marocellus”, mentre più tardi, nel 1367 compare la carta dei fratelli Pizigani con il gruppo delle Canarie quasi al completo e, fatto inedito, sulla Lanzarota è disegnato lo stemma genovese e navi genovesi si notano veleggianti verso il sud.

Il nome di Lanzarotto Malocello e la bandiera genovese, stesa sul suolo in segno di jus di primo scoprimento, da allora in poi, vennero ripetuti su tutti i documenti cartografici che ci sono rimasti, marchio indelebile della scoperta italiana.

Si può ritenere, in proposito, che l’insistenza nella riproduzione dell’emblema di Genova dovesse significare per i cartografi del tempo non solo la priorità della scoperta del Malocello ma anche il segno di possesso o di protettorato politico dello Stato genovese.

Nei secoli successivi le Canarie divennero il crocevia di imbarcazioni provenienti da tutto il Mediterraneo e dalle coste portoghesi e divennero un crocevia per i commerci e per la tratta degli schiavi.

Al di là dell’importanza della scoperta, la spedizione di Malocello fu assai importante per almeno due ragioni:

  1. infranse il mito delle Colonne d’Ercole, fino ad allora considerate quasi il “confine del mondo”;
  2. spostando i confini del mondo conosciuto, contribuì ad alimentare la consapevolezza di una rotta verso Occidente, rotta che, poco meno di due secoli dopo, sarebbe stata solcata da un altro celebre genovese, Cristoforo Colombo.

Per concludere, una curiosità, un dato che mi ha colpito (e, se vogliamo essere un po’ polemici, un vero e proprio anacronismo). Le Canarie, come si può vedere dalla cartina sottostante, dal punto di vista geografico appartengono all’Africa, sulla cui piattaforma continentale sono collocate. Ma, poiché dal punto di vista politico sono spagnole, il vulcano del Teide, che si trova sull’isola di Tenerife, con i suoi 3718 metri è il monte più alto della Spagna.

La posizione geografica delle Canarie, di fronte al Marocco meridionale

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Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi.

Gabriel Garcia Marquez

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Per i morti di Reggio Emilia, interpretata da Maria Carta.

La canzone, scritta da Fausto Amodei, ricorda l’uccisione di cinque operai di Reggio Emilia, durante una manifestazione sindacale il 7 luglio 1960. I cinque – Lauro Ferrioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli – tutti iscritti al Partito Comunista Italiano, caddero sotto i colpi della polizia, cui il governo Tambroni aveva dato libertà di aprire il fuoco in «caso di emergenza». A seguito degli scontri di quel periodo, che durarono all’incirca due settimane e che videro a Genova la protesta di portuali e studenti in piazza de Ferrari il 30 giugno, il governo Tambroni, monocolore democristiano sostenuto dall’appoggio esterno di missini e monarchici, cadde.

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Di qui a qualche giorno, cent’anni fa scoppiò la Prima guerra mondiale. Della Grande guerra, oggi, sappiamo molto: i nomi dei generali, le località delle battaglie; se abbiamo voglia di approfondire: la dislocazione dei reparti, i nomi degli eroi.

Ma sappiamo nulla, pochissimo, dei tanti anonimi soldati che la combatterono, delle loro sofferenze, di quelle che erano le loro aspirazioni per la vita in tempo di pace, di come, in modo quasi sempre stupido, sono morti.

La Grande guerra fu guerra di contadini. Ragazzi di vent’anni che venivano mandati allo sbaraglio al fronte – tanto l’importante era fare massa, volume di fuoco – senza quasi aver mai sparato un colpo di fucile. Ragazzi di vent’anni che avevano una ragazza di vent’anni che li aspettava a casa.

Forse proprio considerazioni di questo tipo spinsero De André a scrivere la guerra di Piero, nella quale più che narrare una storia dipinge una ritratto con pennellate da impressionista.

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La tematica di un New Deal europeo è ricorrente. Se ne è parlato molto spesso, anche nel recente passato. In fin dei conti, il piano Delors – quello delle autostrade della comunicazione – altro non era se non un grandioso piano infrastrutturale a livello continentale. Il Libro bianco dell’allora presidente della Commissione venne presentato nel 1992 e, anche allora, ci si trovava di fronte a una fase economica recessiva.

Nel frattempo, che cosa sta succedendo? Si sono mossi i cittadini che, approfittando della possibilità, riconosciuta dai trattati europei di promuovere iniziative popolari – secondo determinate regole, ma in modo molto più flessibile rispetto all’analoga normativa italiana di proposta di legge di iniziativa popolare -, hanno lanciato una Iniziativa dei Cittadini Europei (Ice) denominata, per l’appunto, New Deal 4 Europe, con l’intento principale di creare i presupposti per una crescita economica e occupazionale del continente eco-sostenibile e con un occhio attento alla ricerca e all’istruzione. Tutta la documentazione, le notizie, i materiali utili, sono disponibili sul sito http://www.newdeal4europe.eu/it/, mentreè possibile firmare online a questo indirizzo: https://ec.europa.eu/citizens-initiative/REQ-ECI-2014-000001/public/ ciccando sul pulsante “Dichiarazione di sostegno”.

Io ho firmato. Tu cos’aspetti?

***

Su questo argomento qualche giorno fa si è pronunciato anche Luciano Gallino sul Manifesto. Il governo italiano avrebbe la possibilità di giocare in anticipo, ma saprà coglierla?

All’Europa serve un New Deal

Di Luciano Gallino, Il Manifesto, 27 giugno 2014

Austerity. Se avesse un po’ di coraggio il governo italiano dovrebbe rilanciare un’idea che circola da tempo: un grande piano per investimenti infrastrutturali

A marzo 2014 i disoc­cu­pati erano 25,7 milioni nella Ue a 28, e poco meno di 19 milioni nell’eurozona (stime Euro­stat). Rispetto a un anno prima si regi­strava una lieve dimi­nu­zione, dal 12% al all’11,8 nell’eurozona, e dal 10,9 al 10,5 nella Ue a 28. A ini­zio 2008, i disoc­cu­pati Ue erano sotto il 7%, circa 10 milioni in meno. Ele­va­tis­simi i tassi attuali di disoc­cu­pa­zione degli under 25, anche in paesi che si riten­gono poco col­piti dalla crisi: 23,4 in Fran­cia, 23,5 in Sve­zia, 20,5 in Fin­lan­dia, con una media che sfiora il 24% nell’eurozona, pari a 3,5 milioni di gio­vani. Per non par­lare del 42,7 dell’Italia o del 53,9 della Spagna.

A sei anni dall’inizio della crisi, che cosa fanno le isti­tu­zioni Ue per com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione? Da anni la Com­mis­sione Euro­pea discute di una «Stra­te­gia euro­pea per l’occupazione», nel qua­dro di un’altra che si chiama «Europa 2020: una stra­te­gia per la cre­scita». Di que­ste gene­ri­che stra­te­gie in tema di occu­pa­zione non si è visto quasi nulla. Ma ad aprile 2012 la Ce ha lan­ciato un «Pac­chetto per l’occupazione» più det­ta­gliato. Con­sta di una serie di docu­menti che gli stati mem­bri dovreb­bero fare pro­pri al fine di soste­nere la crea­zione di posti di lavoro, rilan­ciare la dina­mica dei mer­cati del lavoro, raf­for­zare il coor­di­na­mento tra gli stati mem­bri in tema di poli­ti­che dell’occupazione. Le ricette sono le solite che arri­vano da Bru­xel­les: dimi­nuire le tasse sul lavoro; ridurre la seg­men­ta­zione del mer­cato del lavoro tra chi ha un’occupazione pre­ca­ria e chi ha un’occupazione più sta­bile; svi­lup­pare le poli­ti­che attive del lavoro; rimuo­vere gli osta­coli legali e pra­tici al libero movi­mento dei lavo­ra­tori, oltre che – nien­te­meno – inco­rag­giare la domanda di lavoro.

Come mai, ad onta delle sud­dette stra­te­gie, la disoc­cu­pa­zione ha con­ti­nuato a imper­ver­sare nella Ue? Per­ché tali stra­te­gie, che la Ce ha pro­po­sto in pieno accordo con le altre isti­tu­zioni UE e la mag­gior parte dei governi euro­pei, non toc­cano mini­ma­mente i fon­da­menti strut­tu­rali di essa.
Insi­stono sui soliti motivi isti­tu­zio­nali: l’ordinamento giu­ri­dico del mer­cato del lavoro, le tasse ecces­sive, la rilut­tanza dei lavo­ra­tori ad accet­tare i posti di lavoro che ci sono in luogo di quelli che pre­fe­ri­reb­bero, lo scarto tra le capa­cità pro­fes­sio­nali di cui i lavo­ra­tori dispon­gono e quelle che le imprese richiedono.

Per con­tro il lavoro è scarso, e i disoc­cu­pati nume­rosi, per­ché la com­pres­sione dei salari e delle con­di­zioni di lavoro in atto da vent’anni nei paesi Ue ha ridotto la domanda dei con­su­ma­tori; a loro volta le imprese hanno ridotto di molto gli inve­sti­menti e l’accumulazione di capi­tale reale per­ché pre­fe­ri­scono distri­buire lauti pro­fitti o riac­qui­stare azioni pro­prie; il forte aumento delle disu­gua­glianze ha sem­pre più spo­stato gli inve­sti­menti del 5 per cento dei ric­chi e super-ricchi verso il set­tore finan­zia­rio; i mag­giori paesi hanno sot­tratto all’economia decine di miliardi l’anno a forza di avanzi pri­mari, nel vano ten­ta­tivo di con­te­nere il debito pub­blico gra­vato dai sal­va­taggi delle banche.

Dinanzi alle sedi­centi stra­te­gie per l’occupazione che la Ce pro­pu­gna all’unisono con la Bce, il Fmi e i governi Ue, che cosa può fare il governo ita­liano nel seme­stre in cui tocca all’Italia la pre­si­denza Ue? A parte il fatto che il governo Renzi ha mostrato con i suoi inter­venti in tema di lavoro e occu­pa­zione di seguire alla let­tera i pre­cetti della Ce, è chiaro che dinanzi a tale muro non c’è molto da fare. In ogni caso, se avesse un po’ di corag­gio, potrebbe pro­vare a rilan­ciare un’idea che da tempo cir­cola nella Ue: un New Deal per l’Europa, ovvero un grande piano euro­peo per inve­sti­menti infra­strut­tu­rali. Che dovrebbe tenersi alla larga dalle grandi opere, per con­cen­trarsi invece su infra­strut­ture urbane e inte­rur­bane, dalle strade ai tra­sporti urbani e regio­nali, dalle scuole agli ospe­dali, che quasi un decen­nio di insen­sate poli­ti­che di auste­rità ha gra­ve­mente cor­roso, e dalle quali pos­sono deri­vare milioni di posti di lavoro.

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Di Angelo D’Orsi, Micromega, 27 giugno 2014

In un volume di recente pubblicazione – “Scritti su Marx”, a cura di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, edito da Donzelli – una selezione di scritti inediti di Norberto Bobbio su Marx. Pagine che confermano l’estraneità di Bobbio all’universo marxiano e la sua sostanziale incomprensione del gigante tedesco. Ma nulla aggiungono ai testi già noti.

Norberto Bobbio

La ricerca dell’inedito è pratica diffusa e piacevole per lo studioso, quasi sempre utile, non sempre indispensabile (vale sempre l’adagio “Nulla più inedito dell’edito”). Quando poi dalla ricerca (con risultato positivo, s’intende) si passa alla decisione di trasformare l’inedito in pubblicazione, allora la cosa si complica. E, soprattutto, non è detto che per il lettore si tratti di un vantaggio. Davanti all’operazione condotta con affetto e reverenza da Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, studiosi di “ambiente bobbiano”, mi sia consentito esprimere qualche perplessità.

Frugando nell’immenso Archivio Bobbio (depositato presso il Centro Studi Piero Gobetti, di Torino), essi hanno trascelto frammenti, note, appunti, testi semicompiuti per conferenze, e li hanno affidati alle stampe, con una Introduzione che prova a contestualizzare sia nello sterminato corpus della produzione del Maestro, sia nelle diverse stagioni nelle quali egli si avvicinò a Marx. La perplessità si può esplicitare nella domanda banale ma ineludibile: serve? E a chi eventualmente può servire? Non certo al lettore comune, anche colto, interessato a Marx e alla storia del marxismo; in queste pagine difficilmente ricaverebbe elementi a loro volta utili a soddisfare dubbi analitici, saziare la volontà di sapere e capire di più relativamente all’autore del Capitale, ossia al suo pensiero, e a quello di una folla di discendenti più o meno fedeli. E persino lo studioso professionale di marxismi non troverebbe in queste pagine di che soddisfarsi: spesso provvisorie, sovente didascaliche, tracce di saggi, che, nella loro forma compiuta, più agevolmente, si possono reperire e leggere nella raccolta curata da Carlo Violi Né con Marx, né contro Marx (Editori Riuniti, 1997).

Ecco, è sufficiente un confronto tra questi due libretti per rendersi conto che se vogliamo conoscere il Marx di Bobbio ha decisamente più senso leggere o rileggere i testi compiuti, affidati dall’autore all’editore, piuttosto che avventurarsi nel groviglio di questi scritti che non credo Bobbio avesse ipotizzato di pubblicare (e non so se apprezzerebbe che lo si sia fatto).

Ciò malgrado, una sua utilità il libro ce l’ha, e non concerne Marx, bensì Bobbio stesso, o meglio per la ristretta comunità degli studiosi di Bobbio: si tratta per così dire del backstage dell’officina bobbiana, nel reparto marxologico. E se ne ricavano conferme e qualche novità, non particolarmente lusinghiera per Bobbio che, con la sua affilatissima lama forgiata nella filosofia analitica – forse nessuno della sua generazione in Italia lo ha superato, in questo – non riesce, a mio avviso, a penetrare la dura pelle dell’orso Marx. Non tanto, direi, per incapacità soggettiva, ma per un retroterra oggettivo, dal quale Bobbio non volle, in fondo, né seppe allontanarsi. Che, sostanzialmente, è quello crociano. In una conferenza padovana del 1946, Bobbio, allora militante del Partito d’Azione, afferma, in polemica con Marx e il marxismo (e, politicamente, coi comunisti): «La meta fondamentale dell’uomo non è la società senza classi: il problema dell’uomo è il problema della libertà» (e sottolinea la parola libertà). Ma ancora più chiaro ed esplicito il richiamo a Croce (allora ancora in vita) nella frase seguente: «Tutta la storia umana è storia di libertà». (p. 12).

È evidente che, quella doppia negazione (“né Marx, né contro”; che peraltro era già stata usata da Bobbio in un articolo sul suo rapporto con i comunisti: Né con loro, né contro di loro) è piuttosto ingannevole. Bobbio ha un rapporto diciamo di tipo dialettico, ma tendenzialmente conflittuale con Marx, ovvero sembra inserirsi, sia pure a distanza di decenni, in quella generale “resa dei conti” che una larga parte della cultura europea fece a partire dalla morte di Marx: l’interesse di Croce e di Gentile per il pensatore rivoluzionario di Treviri si colloca in questa temperie, dalla quale non a caso è lambito, sia pur ex post, anche Bobbio. Eppure c’è nella vasta e complessa teoria marxiana più di un elemento che sfida Bobbio, e lo induce a replicare, puntualizzare, respingere in toto, e più raramente, accogliere, sia pure solo molto parzialmente.

In uno dei frammenti – testo di una conferenza del 1951 – spiega: «Appartengo ad una generazione che si è formata negli studi conoscendo Marx di riflesso, attraverso la critica che ne aveva fatta il Croce»: una confessione preziosa, ma che, con onestà Bobbio stesso, integra, precisando che a differenza di quel che Croce pensava – preciso, dopo la giovanile infatuazione, sulla scia di Antonio Labriola –, egli si era accorto che «Marx non era rimasto in soffitta ma sulla strada maestra che si percorre ogni giorno». Si trattava di una presenza ingombrante con la quale, insomma, un intellettuale serio non poteva non fare i conti. Nell’anno del centenario della morte, Bobbio scrive di ritenere necessario che «le sinistre europee debbano liberarsi di Marx», ma è costretto, suo malgrado (e lo precisa con grande onestà, o se si preferisce con assoluto realismo) ad ammettere che «Marx è ancora – piaccia o non piaccia – vivo» (p. 121).

Si coglie, va precisato, da ogni riga sia di questo libro, sia da quello già richiamato che raccoglie i testi “compiuti” di Bobbio, che Marx per lui e per altri della sua generazione, fu non «oggetto di passione, guida per l’azione o oggetto di abominio», ma, innanzi tutto, «oggetto di studi, di ricerca, di riflessione, di critica» (p. 29). Analogamente, in una bella, lunga lettera del 1978, ad Aurelio Macchioro (che si era dedicato a una disamina critica del pensiero di Bobbio, sardonicamente stroncando, in particolare, il Bobbio lettore di Marx) Bobbio, piccato, afferma di respingere tanto la marx-fobia quanto la marx-mania: ma ancora una volta mostra una profonda estraneità all’universo marxiano.

Nel 1969 aveva precisato che i suoi «incontri con Marx» erano avvenuti «in momenti cruciali» della sua vita: l’«antifascismo militante» a Padova nel 1942 (un’autoqualificazione su cui vi sarebbe da eccepire; era l’epoca in cui come Bobbio stesso ammise trent’anni dopo, faceva «il fascista coi fascisti, e l’antifascista con gli antifascisti»); la ricostruzione; il Sessantotto. E si spinge a definire la visione della storia di Marx «semplicistica e superficiale», azzardando, persino, che essa è stata «smentita dalla storia». Come se non bastasse, conclude, con una certezza apodittica che un po’ stupisce in un intellettuale che ha fatto del dubbio la sua divisa: «Non è avvenuto nulla di quel che Marx ha previsto» (p 84). Un errore clamoroso, come chiunque può facilmente constatare, e come oggi si può dire che l’intera platea degli studiosi di scienze sociali è costretta a riconoscere: esagerando un po’, potremmo rovesciare l’affermazione assiomatica di Bobbio, sostenendo che Marx aveva previsto tutto… Bisogna tuttavia riconoscere che nel già menzionato scritto del 1983 l’ultima riga recita: «Ho poi l’impressione che la parola definitiva spetti agli economisti» (p. 121). Certo, lo dice a malincuore, in una sorta di segreta speranza che anche la scienza economica collabori alla demolizione di Marx, che dunque può tranquillamente essere studiato, distinguendo giudiziosamente e classicamente “ciò che è vivo” da “ciò che è morto”; un po’ come con Gramsci, insomma. E trattandosi per l’uno come per l’altro di “classici” il loro “uso politico” è da evitarsi, come, in realtà, sembra di capire sia da evitare anche un troppo frequente richiamo a loro, o una qualsivoglia pretesa di attribuire ad essi, al marxismo, nel suo complesso, una centralità nella storia del pensiero, che egli nega recisamente. Ad esempio, nell’intervento tenuto alla presentazione del I volume della celebre Storia del marxismo diretta da Eric Hobsbawm (e altri eminenti studiosi) per Einaudi nel 1978, Bobbio si addentra in un insistito gioco di interrogativi retorici che sembrano esprimere fastidio, più che volontà di accostarsi sine ira et studio (come Bobbio stesso non solo in questo libro, ma in numerosissime occasioni ribadisce precisando la propria etica di ricercatore).

In definitiva, scorrendo queste pagine, più ancora che quelle strutturate raccolte nel volume del 1997, se ne ricava l’impressione non soltanto di una sottovalutazione, ma di una sostanziale incomprensione del gigante tedesco, benché Bobbio non sia esente dal fascino che da quell’opera poderosa promana, come dimostra l’eccellente edizione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 da Bobbio (inopinatamente verrebbe da dire) curati nel 1949 per Einaudi, e poi ripubblicati, opportunamente, in edizione riveduta nel fatidico 1968, quando il “giovane Marx” furoreggiava tra gli studenti. Proprio in riferimento a quell’opera, in un intervento del medesimo anno, luccicano alcune perle di acume: per esempio nel folgorante parallelo tra Marx e Kierkegaard, giustamente individuati come «le due principali vie attraverso cui si esaurisce lo spirito romantico» (p. 43).

Eppure, quell’acume assai meglio, soprattutto non suo malgrado, per così dire, ma consapevolmente e per libera scelta, Bobbio ha saputo riservare ai tanti, numerosi “suoi” autori: Marx non fu tra essi. E raccogliere questi lacerti, che nulla aggiungono agli scritti già noti, davvero non sembra essere stato un buon servizio né a Bobbio, né al pubblico, tranne, ripeto, alla ristrettissima platea dei “bobbiani”. I quali però potevano e possono lavorare sui manoscritti dell’Archivio Bobbio, salvando qualche albero.

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