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Posts Tagged ‘Beppe Grillo’

Andrea Fabozzi, Il Manifesto, 31 dicembre 2015

«Il premier Renzi governa come se ci fossero già l’Italicum e la nuova Costituzione. Il presidente Mattarella non distoglierà lo sguardo da questa situazione. Il bipolarismo crolla ma non c’entra il populismo. I partiti non sanno più leggere la società»

«Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza». L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna.

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Alessandro Dal Lago, Il Manifesto, 13 novembre 2015

Al vertice di La Valletta tra i leader europei e africani ha vinto il cinismo globale. Noi vi diamo un miliardo e ottocento milioni di euro e voi ci tenete i migranti lontani dalle coste e dai confini della Ue. Non bastano, hanno rilanciato subito i leader africani, i quali si divideranno però la mancia, anche se nessuno sa di preciso come e quando. Qualche tempo fa, Angela Merkel, che pure aveva suscitato grande scalpore e simpatia dichiarando di aprire le porte della Germania ai profughi siriani, aveva fatto una proposta simile al governo turco, il quale ha risposto più o meno picche. Qual è il senso di questo mercanteggiamento sulla pelle di centinaia di migliaia di esseri umani?

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I miei doveri di candidato alla presidenza del mio Paese non mi consentono di mantenere il livello di lavoro e di coinvolgimento nelle attività del Parlamento.

Pablo Iglesias Turrión

Con queste parole, Pablo Iglesias ha presentato le dimissioni da parlamentare europeo. Podemos non gode di buona salute, avendo subito un graduale calo nei sondaggi. Negli ultimi mesi è stato superato da Ciudadanos che incanala parte della protesta ma appare meno di rottura rispetto alla coalizione che recentemente ha trionfato a Barcellona e Madrid (qualcuno per esemplificare, o semplificare?, parla di “Podemos moderato”).

Ovviamente, i problemi del movimento guidato da Iglesias sono più gravi di quanto asetticamente rilevato nei sondaggi. Vi coesistono, infatti, due anime, una più radicata a sinistra, l’altra che si può definire post-ideologica che non possono e forse non vogliono andare d’accordo. Probabilmente, seppure a livello non razionale, questa contraddizione interna viene percepita dall’elettorato. Il compito di Iglesias, a questo punto, sembra dover essere quello di ricompattare il partito e fare sintesi fra le due posizioni. Inoltre, l’erosione dei consensi da parte di Ciudadanos va attribuita, almeno in parte, anche all’abilità del suo presidente Rivera, anche se un recente confronto televisivo (seguito da oltre cinque milioni di telespettatori) che li ha visti contrapposti alla fine ha premiato il candidato di Podemos alla presidenza. (altro…)

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Intervista a Barbara Spinelli di Giampiero Calapà, Il Fatto Quotidiano, 1° luglio 2015

«Inammissibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

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Maurizio Landini scenderà in politica? Con chi? In che forma? Sono tutti interrogativi che circolano in questi giorni. Personalmente, mi auguro che Landini continui a fare il sindacalista perché, se è vero che il sindacato ha una forte necessità di una sponda politica, è altrettanto vero che una sinistra politica senza la spinta costante del sindacato sarebbe una costruzione monca. Staremo a vedere.

È necessario anche segnalare che esistono altri modelli, altri tentativi di unificazione della sinistra e vedremo quale sarà quello che riuscirà a ottenere il miglior risultato. Si sta giocando una partita molto importante ma fondamentale per il futuro di questo paese.

Infine, non mi piacciono i continui riferimenti a Syriza e Podemos. Non perché non mi piacciano Syriza e Podemos, ma perché penso che siano due costruzioni politiche che si sono costituite grazie alla compresenza di svariate circostanze, probabilmente irripetibili. La Sinistra unita italiana avrà caratteristiche del tutto differenti e particolari. Ma non chiedetemi adesso quali, perché non le so.

Maurizio Landini e Stefano Rodotà

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Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2015

Gino Paoli

È più pericoloso un governo che non fa nulla contro l’evasione fiscale, anzi fa molto pro, o un privato cittadino famoso accusato di evadere il fisco? Il secondo, a dar retta ai giornali. La lista Falciani, le accuse di Giuliano Soria, l’indagine di Gino Paoli, le polemiche a Sanremo per la presenza di Ferro e Nannini sospettati di evasione, occupano le prime pagine. E intendiamoci, è giusto e normale che sia così, vista la notorietà dei personaggi: Grillo, che difende l’amico Gino, deve farsene una ragione, anche se Paoli, come tutti gli accusati, ha il sacrosanto diritto alla presunzione di non colpevolezza (che non lo esime dalle dimissioni da un ente “sensibile” come la Siae).

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Credo che questo spunto di Pucciarelli sia interessante, anche se la sensazione che ho è di tipo diverso. Infatti, quando ci incontriamo fra forze di sinistra sembra che chi parla venga sempre pesato non per quello che dice, ma per quello che rappresenta, in termini di voti, di numero di iscritti, di percentuale alle ultime elezioni. Se per democrazia intendiamo questo, allora il problema non è la mancanza di democrazia, o la paura della democrazia, ma la troppa democrazia. Almeno nei suoi aspetti deteriori più superficiali.

Matteo Pucciarelli, MicroMega

Ci sono due leggendarie parole che aleggiano dalle nostre parti. La prima volta che le sentii nominare mi nutrivo con il cordone ombelicale: “democrazia” e “unità”. In un qualsiasi discorso di una qualsiasi riunione sediziosa della sinistra, le due parole si intrecciano tra loro più e più volte, quasi con lussuria, creando fremiti e stupore (sempre meno in realtà) tra gli astanti (anche loro, gli astanti, sono sempre meno).

Dopo innumerevoli dibattiti, cartelli elettorali, convention, congressi, scissioni, riappacificamenti, scioperi, mailing list, comitati, lancio di iniziative, lancio di invettive, cortei e tutto ciò che ci contraddistingue, sono giunto a una conclusione: l’unità non interessa davvero a nessuno, perché si ha paura della democrazia.

Un qualsiasi essere umano, per sua fortuna all’oscuro delle imperscrutabili dinamiche della sinistra radicale, uno insomma che ha una vita, ad oggi vede le aree politiche più o meno così suddivise: destraberlusconisalvini, Renzi, Grillo, “quelli lì” (quelli lì siamo noi).

Quelli lì, fatte salve le differenze fisiologiche (sesso, età, altezza, peso, colore preferito, hobby, appartenenza politica negli anni ‘70, cartone animato preferito negli anni ‘90) hanno più o meno le stesse idee su tutto, o quasi. Di sicuro, sono radicalmente diversi da destraberlusconisalvini, Renzi, Grillo. Quelli lì sulla politica economica, sul lavoro, sui diritti sociali e civili, sull’Europa, sulle disuguaglianze, sulla guerra, hanno posizioni simili.

Il famoso pensiero neoliberista (comune invece alla destraberlusconisalvini, Renzi, Grillo, nonché modello culturale ad oggi vincente) è, nella sostanza, il nemico comune di quelli lì. Logica spicciola vorrebbe che quelli lì si unissero per combattere il moloch; una formica da sola ha il destino segnato, mille formiche insieme non è detto (sono cose banali, esatto, banali!). E infatti a parole quelli lì sono tutti per l’unità.

Bene, e allora facciamola l’unità, dice sempre l’uomo comune. E qui però entra in gioco la democrazia e la paura della democrazia di chi da anni rema contro perché – e qui arriva il punto – ha un piccolo recinto da presidiare e difendere, fatto di riti e consuetudini calde e accoglienti per la psiche di chi sta dentro, totalmente inutili se non dannose per chi sta fuori e le osserva con sgomento.

Allora, l’unità arriva ma solo se parte da se stessi. La democrazia è reale, ma solo quella che viene partorita dalla propria organizzazione. Le parole d’ordine sono le mie, la strategia e la tattica vincente è la mia, la bandiera più bella è la mia. Ed ecco che l’unità delle parole è divisione nei fatti. Ci si mette d’accordo, e nemmeno sempre, solo a ridosso di una qualche elezione: un giochino diventato stucchevole.

Eppure, appunto, ci sarebbe la democrazia. La logica degli spazi politici vorrebbe che al di là del Pd esistesse un unico (e magari grande) soggetto politico di sinistra. Solo che partitini, associazioni, movimenti, non ci stanno a fare il salto nel buio, e cioè rinunciare a un pezzo della propria minuscola sovranità. Vogliono tutti dare la parola e il potere al “popolo”, o farsene portavoce, ma non sia mai che sia davvero così.

Quel che è avvenuto in Spagna con Podemos (no, i modelli non sono esportabili, ma gli insegnamenti spesso sì) dice che grazie ad un sito tutte le decisioni possono passare attraverso il voto delle persone. Dal programma alle candidature. Con la massima trasparenza (ad esempio, affidando la gestione del portale ad una società esterna che a sua volta si fa controllare i dati da un’altra ancora) e con la massima apertura alla partecipazione, mediata o diretta.

Vuoi che il partito della sinistra abbia la bandiera rossa oppure viola oppure blu? Si vota. Vuoi che alle elezioni regionali toscane si corra da soli o in coalizione? Si vota. Si vota sempre e per tutto. Si votano i gruppi dirigenti, i programmi, i modelli organizzativi. Votano tutti, anche gli iscritti ad altri partiti. È la democrazia, no? Votare, partecipare, è pratica contagiosa, è l’unico sistema capace di far riavvicinare l’uomo comune a un mondo ancora adesso autoreferenziale ed autocentrato. È una pratica rischiosa, la democrazia, ma solo per chi ha qualcosa da perdere (di solito il dover fare la minoranza).

La tecnologia porta con sé opportunità enormi, che se sfruttate a pieno (non nella versione burletta della Casaleggio associati) possono davvero rendere concrete parole come “unità” e “democrazia”.

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Di Pietro Folena dal suo blog personale, 12 giugno 2014

Fermatevi!

Prima che sia tardi Matteo Renzi e i suoi consiglieri, con l’appoggio di larga parte dell’ex-minoranza, dovrebbero evitare un cortocircuito traumatico nella coscienza del Paese. Non basta evocare i “voti”, come si è fatto in queste ore: non c’è voto, né “plebiscito” che giustifichi atti di prepotenza e di intolleranza come quello che ha visto il PD cacciare Vannino Chiti e Corradino Mineo dalla Commissione Affari Costituzionali perché non “allineati”. Non ho memoria, in epoche recenti, di un atto di questa brutalità. Il tema va al di là del merito della riforma: viene messo in discussione un principio costituzionale sacro, e cioè la non esistenza di un vincolo di mandato del parlamentare, il quale non deve rispondere al Partito, ma alla Sua coscienza, interpretando lì il senso del mandato ricevuto.

Ricordo le sacrosante polemiche bersanian-renziane contro Beppe Grillo quando a più riprese è intervenuto per imporre un vincolo agli eletti del M5S. Oggi Anna Finocchiaro, che presiede la Commissione, giustifica questa sostituzione affermando che il problema della libertà di coscienza esiste solo per l’Aula!

Non si sta discutendo della fiducia al Governo, né della legge di stabilità; né di temi come quelli del lavoro, su cui le sensibilità nel PD sono molto differenti, e acute; e neppure della pace – chi scrive, nei DS, in Commissione e in Aula, votò a più riprese in dissenso all’epoca di controverse decisioni sulle missioni militari, senza mai subire atti di imperio paragonabili a questo.

Qui si discute di Costituzione, di una materia di per sé al riparo, più di ogni altra, da diktat delle nomenklature di Partito. Il PCI, nell’era del Cominform, affrontò la formulazione della Costituzione con un’apertura e una disponibilità ben superiori rispetto a quelle dimostrate ora.

I tredici senatori del PD hanno fatto bene a autosospendersi. Bisogna chiamare i vertici del Partito a riflettere, e a tornare indietro, sperando che sia solo l’inesperienza ad aver provocato questo autogol. Bisogna invitare i circoli e gli iscritti a esprimersi sulla questione.

Matteo Renzi ha vinto largamente. Ma farebbe un errore a voler stravincere. Non c’è 41%, e neppure 50,1% che giustifichi sulla questione delle regole un’intolleranza per chi la pensa diversamente.

Ora questo giovane leader deve dimostrare di non essere un altro capo populista, come altri che abbiamo conosciuto in questi anni, ma uno statista, e un leader che vuole promuovere una nuova stagione “democratica”. Avere la forza di fermarsi non è un atto di debolezza, ma una dimostrazione di forza: la forza della ragione, contro la ragione della forza.

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La distinzione con la destra, la difesa dei beni comuni, il welfare e al Costituzione. Ecco la carta dei nuovi diritti “indivisibili e non sovversivi” secondo il giurista

La Repubblica, 23 luglio 2013

“Perché mi applaudono nelle piazze e nei teatri? In questi anni ho continuato a parlare di eguaglianza, lavoro, solidarietà, dignità. Sì, ho detto delle cose di sinistra, che nel grande Silenzio della politica ufficiale hanno provocato un investimento simbolico inaspettato. Una reazione che naturalmente lusinga, ma mi crea anche qualche imbarazzo”.

Il nuovo papa della sinistra “altra”  –  quella dei diritti, dei beni comuni, della Costituzione e della rete  –  ci riceve in una stanzetta della Fondazione Basso, a pochi passi dai palazzi della politica che ha sempre frequentato da irregolare. Ottant’anni compiuti di recente, giurista insigne con esperienza internazionale, Stefano Rodotà ha una biografia che racconta un pezzo importante di sinistra eterodossa. Una storia lunga che dice moltissimo sull’oggi, sulle partite vinte e su quelle perdute.

In molti, anche tra i suoi antichi compagni di battaglia, sostengono che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso.
“È una vecchia storia, che risale ai tempi di Laboratorio politico, la rivista che nei primi anni Ottanta facevamo con Tronti, Asor Rosa e Cacciari. Non ero d’accordo allora, e oggi mi arrabbio ancora di più. Cosa vuol dire che non c’è più distinzione? Vuol dire che dobbiamo essere i fautori della pacificazione? La distinzione esiste, ed è marcata: sia sul piano storico che su quello teorico. Chi non la vuole vedere mi suscita una profonda diffidenza politica”.

Proviamo a indicare qualche punto essenziale di distinzione.
“Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona ahomo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che è dignità”.

Una parola molto presente nella tradizione cattolica.
“In parte viene da lì. E qui ho dovuto rivedere alcuni miei giudizi giovanili insofferenti al personalismo cattolico, che lasciò una forte traccia sulla Costituzione. Ma la dignità è anche legata al tema del lavoro. C’è un passaggio essenziale della Carta, l’articolo 36, che stabilisce che la retribuzione deve garantire al lavoratoree alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La nostra Costituzione, insieme a quella tedesca, rappresentò l’unica vera novità del costituzionalismo del dopoguerra. Noi con il lavoro, i tedeschi con l’inviolabilità della dignità umana, principio reso necessario dai crimini del nazismo”.

Le uniche due novità provenivano dai paesi sconfitti?
“Sì, Italia e Germania avvertivano più degli altri il bisogno di uscire da un mondo tragico per rifondarne uno radicalmente diverso “.

In fase costituente, il giurista Costantino Mortati tentò di introdurre una distinzione tra diritti civili e diritti sociali, tra quelli che non hanno un costo e quelli vincolati alle risorse dello Stato, quindi garantendo a priori i primi e impegnando lo Stato a trovare le risorse per i secondi, ma senza assicurarne il pieno godimento. Poi prevarrà un’altra interpretazione, che include i diversi diritti in un’unica categoria. Interpretazione che alcuni oggi vorrebbero rivedere.
“Due obiezioni essenziali. Primo: il ritenere questi diritti indivisibili non è un principio sovversivo, ma viene sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Secondo: esso vale come vincolo nella ripartizione delle risorse. Dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro mi costringe a tenerne conto quando distribuisco le voci di bilancio. Lo so che la salute costa, ma quando l’articolo 32 mi dice che è un diritto fondamentale, la politica non può prescinderne. E venendo alla formazione, se la scuola pubblica è un obbligo per lo Stato, finché io non ne ho soddisfatto tutti i bisogni, alla scuola privata non do niente. Troppo brutale?”.

No, molto chiaro.
“È evidente che il welfare va rivisto sulla base delle risorse, ma chi agita la bandiera dei “diritti che costano” mi sembra voglia liberarsi dell’ingombrante necessità di discutere di politiche redistributive. Spesso sono gli stessi che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra”.

Lei cominciò nelle file radicali.
“No, in realtà esordii nell’Unione goliardica italiana, che era il movimento giovanile universitario. Lì è cominciata la mia storiella da cane sciolto. Lettore delMondo ma insofferente alle chiusure anticomuniste di Pannunzio. Compagno di viaggio dei radicali, ma allergico all’autoritarismo di Pannella. Poi molto vicino al Psi guidato da De Martino, ma pronto a litigare con un arrogantissimo Craxi divenuto vicesegretario. Infine nella Sinistra Indipendente, che però era irregolare di suo. Non sono mai stato intrinseco a nessun partito. L’unico mio punto fermo sono stati i diritti”.

La “storiella da cane sciolto” ha a che fare con la mancata elezione a presidente ella Repubblica?
“Forse sì, ed è per questo che non ci ho mai creduto. A un certo punto ho avvertito la necessità di metterci la faccia per impedire quello che poi è successo: le larghe intese e la pacificazione nazionale”.

L’hanno accusata da sinistra di aver dato una sponda ai grillini.
“Semplicemente puerile. Era stato Bersani a cercare per primo l’intesa con loro, e allora mi apparve la cosa giusta”.

Ma i Cinquestelle sono di sinistra?
“Non è facile rispondere. Dentro il movimento ho trovato dei contenuti che si possono riferire a una cultura di sinistra: diritti, ambiente, beni comuni. Ma quando s’è trattato di dare uno sbocco parlamentare a queste idee è arrivato l’alt di Grillo”.

Che è tra quelli che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra.
“Appunto. Non è di sinistra. Ma ha saputo intercettare un desiderio di cambiamento diffuso nella società civile. L’ha interpretato sul piano della protesta, però non ha saputo dargli una traduzione politica, con l’effetto di sterilizzarlo “.

Perché il Pd non l’ha sostenuta nelle elezioni presidenziali?
“È un partito dall’identità debole, gli è parso troppo arrischiato affidarsi a una personalità fuori dalle righe. Sì, capisco che la scelta di fare una trattativa con i grillini avrebbe richiesto un po’ di azzardo. Ma il cambiamento richiede coraggio. E la sinistra è cambiamento”.

Nessun risentimento?
“No, il mio giudizio è esclusivamente politico: hanno sbagliato nel rinunciare alla strada del cambiamento. E hanno sbagliato nel silurare Prodi. Quando seppi che Romano era il nuovo candidato del Pd, feci subito una dichiarazione pubblica in cui mi dicevo pronto al passo indietro. Sul treno per Reggio Emilia mi chiamò lui dal Mali. “Come mi dispiace Stefano, noi così amici e ora contrapposti”. Quando gli dissi del mio passo indietro, lui mi ringraziò per avergli tolto un peso”.

Che effetto le fa essere acclamato in piazza come il nuovo papa rosso?
“Sono un po’ imbarazzato, e non so come uscirne. Naturalmente sono grato a tutte queste persone. Però il problema della sinistra non può stare sulle mie spalle. Dalle manifestazioni sulle leggi-bavaglio a quelle delle donne, dalle piazze studentesche al referendum sull’acqua, esiste un’altra sinistra che la politica istituzionale si ostina a non vedere. Intorno a questo mondo è possibile costruire”.

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Laura Eduati, Huffington Post, 2 giugno 2014

I maligni scrivono che è stata folgorata sulla via di Strasburgo. Ma il sentimento prevalente è l’amara sorpresa: Barbara Spinelli, promotrice della lista Tsipras e candidata capolista nell’Italia centrale e meridionale, starebbe cambiando idea e non lascerà il seggio come aveva promesso , Dunque molto probabilmente diventerà europarlamentare nell’edificio che porta il nome del padre Altiero. La possibilità che questo avvenga è ormai data per molto concreta.

Pare che dietro la decisione ci siano forti pressioni dello stesso Alexis Tsipras, il leader greco della vincente Syriza che vorrebbe portare in Europa un nome di peso come quello dell’editorialista di Repubblica e proporla come vicepresidente del Parlamento. Spinelli dovrebbe sciogliere le riserve entro poche ore, soprattutto per fermare l’enorme confusione che si è scatenata in queste ore all’interno della lista Tsipras, dove le posizioni non sono per niente univoche.

Guido Viale, tra i promotori della lista insieme con Flores D’Arcais e la stessa Spinelli, pensa che l’idea di mandarla a rappresentare la sinistra italiana a Bruxelles non sia affatto malvagia. Non la pensano così una folta schiera di persone coinvolte e meno coinvolte nel progetto. Maso Notarianni, giornalista e membro del comitato elettorale, ha scritto una lettera pubblica indirizzata a Spinelli, nella quale spiega che l’eventuale scelta di mantenere la poltrona europea danneggerebbe l’immagine della lista Tsipras:

Erano anni che non si vedevano così tante facce credibili, coerenti con la propria storia e con la propria vita, mettersi in gioco per un progetto di cambiamento. Questo è stato visto e apprezzato dai pochi che sono riusciti a vederci.
Ma vedo che, non appena ha cominciato a girare la tua idea di ripensarci, sono partiti centinaia di commenti spiacevoli, che ci accomunano al resto dei “politici”, che dicono (qualcuno con soddisfazione, altri con disperazione) che siamo uguali agli altri.
Ecco, io ti chiedo con il cuore in mano se te la senti di prenderti una responsabilità così grande: quella di farci perdere in credibilità e in coerenza.
Non so se tu te ne rendi conto, non vorrei – davvero – che questa scelta poi ti venga fatta pagare troppo duramente.

Marco Furfaro

I simpatizzanti della lista Tsipras sfogano sui social network la loro delusione, anche se non mancano coloro che hanno addirittura promosso una petizione per chiedere a Spinelli di rappresentarli in Europa. Tra questi alcuni candidati della lista Tsipras come l’attore Ivano Marescotti, l’urbanista Edoardo Salzano, la scrittrice animalista Daniela Padoan e il No Tav Pierluigi Richetto. Per loro la presenza di Spinelli al Parlamento europeo costituirebbe la garanzia che la lista Tsipras non venga eccessivamente orientata nelle scelte da Sinistra ecologia e libertà – il primo dei non eletti in Italia centrale è Marco Furfaro di Sel -, partito che ha espresso l’idea per ora minoritaria di avvicinarsi al Pd e dunque al Partito socialista europeo. I promotori della lista Tsipras invece preferiscono entrare nel gruppo della Sinistra unita.

Altri invece sono preoccupati dalla recente apertura a Beppe Grillo formulata dalla stessa promotrice.

Eleonora Forenza

In fondo Spinelli, insieme a Moni Ovadia, aveva ripetuto a ogni occasione che la loro era soltanto una forte sponsorizzazione e che all’indomani delle elezioni avrebbero lasciato spazio ai secondi in lista, in questo caso i giovani Marco Furfaro (Sel) e Eleonora Forenza (Prc), candidati rispettivamente nell’Italia centrale e meridionale. Se la figlia dell’europeista di Ventotene dovesse accontentare Alexis Tsipras e garantire la sua presenza all’europarlamento, dovrebbe anche decidere se sacrificare Furfaro o Forenza e non è un dettaglio secondario.

E domani Vendola sarà a Bruxelles per incontrare non soltanto Tsipras ma anche Martin Schulz, candidato alla Commissione europea per il Pse.

Sulla questione di Barbara Spinelli si sono espressi anche due giornalisti e simpatizzanti di peso come Alessandro Gilioli e Paolo Hutter, entrambi molto negativi sull’ipotesi che la giornalista e saggista possa cambiare idea e tenere il seggio. Scrive Hutter:

Dietro a chi sta spingendo la Spinelli in questa più che problematica direzione ci sono il sentimento e la volontà di sbaraccare sia Sel che Rifondazione per dare rapidamente vita al nuovo soggetto politico derivante dal relativo successo della lista Tsipras. In particolare c’è la irritazione perché in Sel si è riaperto il dibattito sul rapporto col Pd. (Ma era inevitabile, col Pd al 40% e una minoranza di Sel che era contraria alla lista Tsipras..) C’è già chi si spinge a dire che non solo la posizione della “destra”Sel ma anche la posizione di Vendola (“ll nostro orizzonte è l’alleanza con il Pd a condizione che si ricostruisca un profilo di cambiamento. Renzi ha vinto e la sua vittoria non cambia la qualità di questo governo…”) sarebbero incompatibili col progetto de l’Altra Europa. In realtà tra tutti gli elettori dell’Altra Europa c’è una convivenza intrecciata di sentimenti, non una divisione netta, tra chi vagheggia un ritorno dell’alleanza tra Pd e sinistra radicale, e chi sogna una Syriza italiana,o un 5 stelle “politicamente corretto”.

Interviene poi Paola Bacchiddu, la responsabile della comunicazione della lista Tsipras che racconta di essere stata allontanata dall’incarico per volere di Spinelli dopo aver pubblicato su Facebook l’ormai celeberrimo bikini:

Per ora tacciono gli altri due promotori della lista Tsipras, Marco Revelli e Luciano Gallino. Tra poche ore, complice anche la pressione che Spinelli dice di ricevere da molti elettori, il nodo dovrebbe sciogliersi e i malpancisti dovrebbero avere una risposta ai loro laceranti dubbi.

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Sono passati pochi anni, professor Umberto Eco, da quando ha detto che a volte avanziamo, ma «a passo di gambero». Parlava di «populismo mediatico» e di paradossi della civiltà tecnologica. Con il successo elettorale del Movimento 5 Stelle il gambero è ulteriormente arretrato?
«No, non è arretrato perché siamo di fronte a un cambiamento epocale. Arretrerebbe se Grillo insistesse a suggerire “faremo di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i nostri manipoli”, perché lo aveva già detto Mussolini. Ma se ho delle esitazioni nei confronti di Grillo (che evidentemente si trova in un momento di stallo perché sta passando dalla protesta, in cui eccelle, alla gestione in positivo della sua rappresentanza parlamentare) ho invece una certa speranza nei confronti dei grillini anche se, non per colpa mia, non so ancora chi siano e cosa esattamente pensino sul come gestire la cosa pubblica. Se non altro non hanno ancora rubato».

Che cosa pensa della strategia che consente a Grillo di essere sempre in tv senza mai andarci?
«Io una volta avevo detto “la chiave del successo è non apparire mai in televisione”. Io non sono presente né su Facebook né su Twitter eppure vedo che qualsiasi cosa scriva viene ripreso su vari siti, e non posso fare un intervento nel più remoto seminario universitario che subito vado su YouTube. Dunque complimenti a Grillo che ha capito questo principio fondamentale: la comunicazione non è più diretta ma va come una palla di biliardo, ovvero si parla a nuora perché suocera intenda (o viceversa)».

L’ insufficiente vittoria di Bersani è dovuta soprattutto a errori di comunicazione?
«Credo di sì e proprio nella Bustina di Minerva per il prossimo numero dell’ Espresso dirò in sintesi che, quando Occhetto aveva annunciato di aver messo in piedi una gioiosa macchina da guerra, è iniziata l’epoca berlusconiana. E nel corso della scorsa campagna elettorale Bersani asseriva che avrebbe vinto e governato. Tutti abbiamo pensato che Bersani conducesse una campagna da gran signore, senza svaccare come i suoi avversari (ed era vero), ma non abbiamo tenuto conto che ogni volta che la sinistra si presenta come sicuramente vincente, perde. In un talk show Paolo Mieli aveva detto che da almeno sessant’anni in Italia il cinquanta per cento dei votanti non vuole un governo di sinistra o di centrosinistra. Non chiediamoci ora perché, è un fatto che per evitare un governo di sinistra (anche se l’aumento delle tasse è stato finora fatto solo da governi di centrodestra) una consistente porzione di elettori si è rivolta per cinquant’anni alla DC e per venti al berlusconismo. Forse la proposta alternativa poteva essere Monti ma (e anche questo è un fatto) non ha funzionato. Dunque la destra vince quando la sinistra convince l’elettorato moderato che sarà essa a salire al potere. Ne concludo che una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari. Ovvero, per vincere devi seguire il principio (attuato da Berlusconi) del “chiagne e fotti”. Senza arrivare a tanto il PD poteva seguire il principio del “keep a low profile”, tieni sempre un “profilo basso”».

Tuttii partiti già esistenti hanno perso terreno.
«Credo che i partiti siano restii ad accettare il cambiamento epocale,e quindi danno ragione a Grillo quando usa l’appello (certamente populistico) del tutti a casa. Naturalmente non si ha democrazia dicendo che tutti i politici sono dei mascalzoni, ma che molti abbiano votato secondo questa persuasione, ecco un altro fatto, e coi fatti non si discute. Anche gli tsunami e le alluvioni sono un fatto, mentre chi fa le processioni per far piovere di solito rischia la siccità».

Sembra che Internet ormai possa giocare un ruolo preminente nella vita politica italiana, ma l’Italia è ancora molto arretrata nell’alfabetizzazione informatica e telematica.
«Questo è un problema capitale. Mi sono ricordato di alcune pagine del Contratto Sociale di Rousseau, che avevo studiato quando avevo dato con Norberto Bobbio l’esame di filosofia del diritto. Ora Rousseau distingue, in parole povere, tra il Sovrano (che non è il re bensì rappresenta la volontà generale), il popolo che lo incarna e il governo che mette in opera le leggi volute dal popolo. Ma sa benissimo che, se l’ideale della democrazia è l’agorà greca, dove tutto il popolo, e cioè la totalità degli individui, partecipa alla cosa pubblica senza mediazione, e vi debbono essere “più cittadini magistrati che cittadini semplici privati”, il principio vale per gli stati piccoli ma non può valere per gli stati troppo grandi “perché non è pensabile che il popolo rimanga in perpetua assemblea per disimpegnare i pubblici affari”. Rousseau è molto scettico circa le assemblee rappresentative (e dunque i parlamenti) e pertanto ritiene che “più ingrandisce lo Stato e più il governo dovrebbe restringersi in modo che il numero dei governanti diminuisca con l aumento della popolazione”. Sono idee sue, che non discuteremo».

Rousseau confuta Grillo o Grillo confuta Rousseau?
«Il grillismo parlamentare è una contraddizione, di qui gli imbarazzi di Grillo, perché la sua idea era quella di un grillismo informatico. Cioè, se è impossibile riunire a legiferare i cittadini su una piazza, si crea la piazza informatica e mediante Internet in cui tutti parlano con tutti si ricrea l’agorà ateniese, per cui il Sovrano è “on line”. Ma l’idea non tiene conto del fatto che gli utenti del Web non sono tutti i cittadini (e per lungo tempo non lo saranno) per cui le decisioni non vengono prese dal popolo sovrano ma da un’aristocrazia di blogghisti. Pertanto non avremo mai il popolo in perpetua assemblea. Questo è l’impasse del grillismo che deve scegliere tra democrazia parlamentare (che esiste, e che lui ha accettato partecipando alle elezioni) e agorà, che non esiste più o non ancora. Una democrazia informatica è parsa esistere nella cosiddetta primavera araba, e ora vediamo chi poi ne ha approfittato».

Una rilevante quantità di intervistati ha mentito, come sempre: ma questa volta hanno favorito in segreto un movimento che predica la trasparenza. Sonoi paradossi della «sondocrazia» ?
«C’è la barzelletta di quel bambino a cui chiedevano sempre se era un bambino e lui rispondeva una bambina, piombando nello sconforto i suoi genitori, che evidentemente erano all’antica. Poi quando da adolescente ha cominciato ad andare a ragazze i genitori gli hanno chiesto perché allora diceva di essere una bambina.E lui ha risposto: “quando mi fanno domande stupide do sempre risposte stupide”. Ecco, se qualcuno viene a chiedermi per telefono per chi voterò (o anche che cosa penso del tal prodotto) mi sento autorizzato a raccontargli una qualsiasi panzana».

Anche in politica, come in letteratura e nella comunicazione massmediale, sembra che il pathos oramai predomini sul logos. È altrimenti difficile spiegare certi flussi che hanno portato per esempio sostenitori di Renzi a votare per Grillo. È l’entertainment, o il “politainment“, che batte la politica? La politica è diventata anch’essa soggetta alla legge consumistica per cui tutto ciò che è nuovo è più attraente?
«In tempi in cui il vecchio non suscita più passioni anche il nuovo può diventare attraente. Ma il problema è che Nixon è stato battuto da Kennedy perché si è mostrato in TV con la barba malfatta. Nixon doveva ispirare sfiducia per ben altre ragioni, ma ha perso a causa del suo barbiere. Il Sovrano di Rousseau non sempre ragiona con la testa ma (a essere indulgenti) col cuore, e il cuore può fare brutti scherzi, come prova il numero di divorziati e il prurito del settimo anno».

I “tecnici” in politica non hanno avuto più successo degli intellettuali éngagés di una volta. È una sconfitta della cultura e della competenza, proprio in tempi che si vorrebbero meritocratici?
«Ma se hanno ammazzato Socrate, perché fa domande del genere? E, francamente, perché e per chi facciamo questa intervista? Ma in fondo siamo ancora gramsciani, pessimismo della ragione e ottimismo della volontà».

La Repubblica, 6/3/2013
Intervista di Stefano Bartezzaghi

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Riporto l’editoriale di Repubblica di oggi, domenica 22 dicembre 2013. Per una volta sono d’accordo con Eugenio Scalfari, cosa che non mi succedeva da un bel po’ di tempo.

Eugenio Scalfari

Oppressa dai sacrifici e dalla disperazione, la gente ha perso ogni fiducia nel futuro ed è dominata dalla rabbia o schiacciata dall’indifferenza. Nel 2012 questi sentimenti erano appena avvertiti ma quest’anno e specie dall’inizio dell’autunno sono esplosi con un’intensità che aumenta ogni giorno. Siamo ancora lontani dal culmine ma indifferenza, disperazione e rabbia non sono più sentimenti individuali; sono diventati fenomeni sociali, atteggiamenti collettivi che sboccano nel bisogno di un Capo. Un Capo carismatico, un uomo della Provvidenza capace di capire, di imporsi, di guidare verso la salvezza di ciascuno e di tutti. Ha bisogno di fiducia? Sono pronti a dargliela. Chiede obbedienza? L’avrà, piena e assoluta.

L’uomo della Provvidenza non ha bisogno di conquistare il potere poiché nel momento stesso in cui viene individuato, il potere è già nelle sue mani.

Carisma e potere, fiducia e potere, obbedienza e potere: questo è lo sbocco naturale che non solo domina la gente orientando le sue emozioni, ma sta diventando anche l’obiettivo che molti intellettuali vagheggiano come la sola soluzione razionale da perseguire.

Non importa che la loro cultura sia stata finora di destra o di sinistra. L’uomo della Provvidenza supera questa classificazione, la gente che lo segue l’ha già abbandonata da un pezzo e gli intellettuali “à la page” se ne fanno un vanto.

Destra o sinistra sono diventati valori arcaici da mettere in soffitta o nelle cantine, materiale semmai di studio, ammesso che ne valga la pena. L’epoca moderna che ne fece i suoi valori dominanti è finita, il linguaggio è cambiato, il pensiero è cambiato o è del tutto assente.

Questa è al tempo stesso la diagnosi di quanto sta accadendo e la terapia risolutiva. L’ha scritto, ma non è né il solo né il primo, Ernesto Galli Della Loggia sul “Corriere della Sera” dello scorso martedì 17 con il titolo “Puntare tutto su una persona“. Ne cito il passo dominante:

Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: diviene ancora più forte la richiesta d’una politica nuova, sotto forma di una leadership che sappia indicare soluzioni concrete… La leadership in questione però – ecco il punto – dev’essere garantita solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito. Nei momenti critici delle decisioni alternative è unicamente una persona, sono le sue parole, i suoi gesti, il suo volto che hanno il potere di dare sicurezza, slancio, speranza. Nei momenti in cui tutto dipende da una scelta, allora solo la persona conta. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia che alla più piccola smentita da parte dei fatti essa rischia di tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto“.

Io non so se Renzi sia e voglia essere il personaggio qui così analizzato ma so con assoluta esattezza e per personale esperienza che Della Loggia ha descritto con estrema precisione Benito Mussolini e il fascismo. Non un leader, ma un dittatore del quale Bettino Craxi fu soltanto una lontana e breve copia fantasmatica e Berlusconi una farsa comica durata tuttavia vent’anni come il suo lontano predecessore.

Io ho conosciuto bene che cosa fu la dittatura mussoliniana. Nacqui che Mussolini era al potere già da due anni, studiai nelle scuole fasciste e fui educato nelle organizzazioni giovanili del Regime, dai Balilla fino ai Fascisti universitari. Il liberalismo e il socialismo risorgimentali ci furono raccontati come una pianta ormai morta per sempre; i comunisti come terroristi che volevano distruggere a suon di bombe lo Stato nazionale. Nel gennaio 1943 fui espulso dal Partito dal segretario nazionale Scorsa per un articolo che avevo scritto su “Roma Fascista”, il settimanale universitario. Cominciò così il mio lungo viaggio nella ricerca d’una democrazia che fosse diversa da quella pre-fascista ed ebbi come compagni e guide in quel viaggio i libri di Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Omodeo, Chabod, Eugenio Montale. So di che cosa si tratta; so che in Italia molti italiani sono succubi al fascino della demagogia d’ogni risma e pronti a evocare e obbedire all’uomo della Provvidenza. Caro Ernesto, ti conosco bene e apprezzo la tua curiosità politica. Ma questa volta l’errore che hai compiuto evocando l’uomo della Provvidenza è madornale.

Il leader non è l’uomo solo che decide da solo col rischio che i fatti gli diano torto.

Quando questo avvenisse – ed è sempre avvenuto – le rovine avevano già distrutto non solo il dittatore ma il Paese da lui soggiogato.

Il leader non è un dittatore. È un uomo intelligente e carismatico, certamente ambizioso, attorniato da uno stuolo di collaboratori che non sono cortigiani né “clientes” o lobbisti; ma il quadro dirigente con una sua visione del bene comune che si misura ogni giorno con il leader.

Il Pci lo chiamò centralismo democratico e tutti i segretari di quel partito, dal primo all’ultimo, si confrontarono e agirono in quel quadro.

Togliatti era il capo riconosciuto, Enrico Berlinguer altrettanto, ma il confronto con pareri difformi era costante e quasi quotidiano, con Amendola, Ingrao, Secchia, Macaluso, Pajetta, Napolitano, Reichlin, Terracini, Alicata, Tortorella.

La formula nella Dc era diversa ma il quadro analogo, da De Gasperi a Scelba a Fanfani a Moro a Bisaglia a De Mita. E poi c’erano anche i socialisti di Pietro Nenni e c’era Ugo La Malfa che impersonava gli ideali di Giustizia e Libertà, del Partito d’Azione, di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli.

I leader riassumevano il quadro ed erano loro ad esporlo e ad esporsi, ma prima il confronto era avvenuto e la soluzione non era affatto d’un uomo solo ma di un gruppo dirigente che comprendeva anche personalità rappresentative della società, economisti, operatori della “business community”, sindacalisti (ricordate Di Vittorio, Trentin, Lama, Carniti e prima ancora Bruno Buozzi che fu ucciso alle Fosse Ardeatine?).

Questo fu il Paese capace di affrontare gli anni difficili. Caro Ernesto, il tuo ritratto del Paese di oggi è purtroppo esatto, ma la soluzione non è quella che tu indichi e fai propria, anzi è l’opposto e non credo sia necessario che io la ripeta qui, l’ho fatto già troppe volte. Dico soltanto che la rabbia sociale c’è, è motivata, va lenita con tutti i mezzi disponibili, ma va anche affrontata sul campo che le è proprio e questo campo è soprattutto l’Europa. Molti che si fingono esperti e non lo sono affatto sostengono che l’Europa non conta niente e che – soprattutto – l’Italia non conta niente.

Sbagliano.

L’Europa è ancora il continente più ricco del mondo e se quel continente fosse uno Stato federale, il suo peso di ricchezza, di tecnologia, di popolazione, di cultura, avrebbe il peso mondiale che gli compete.

Quanto all’Italia, a parte il fatto che è uno dei sei Paesi fondatori dai quali la Comunità europea cominciò il suo cammino, essa trascina sulle sue (nostre) spalle il debito pubblico più grande del mondo. Questo è il nostro più terribile “handicap” che ci distingue da tutti gli altri ma è, al tempo stesso, un elemento di forza enorme perché se l’Europa non ci consente di adottare una politica di crescita, di lavoro, di equità, l’Italia rischia il fallimento economico e il dilagare della rabbia sociale. Ma se questo dovesse avvenire, salterebbe l’intera economia europea insieme con noi.

L’Italia non è la Grecia né il Portogallo né l’Irlanda né l’Olanda e neppure la Spagna. Italia ed Europa si salvano insieme o insieme cadranno.

Questo Letta deve dire e batta anche il pugno sul tavolo perché questo è il momento di farlo. Lo batta sul tavolo europeo ed anche su quello italiano. E non tralasci nulla, né a Roma né a Bruxelles, che ci dia fin d’ora respiro e speranza. Faccia pagare i ricchi e gli agiati (tra i quali mi metto) e dia sollievo ai poveri, ai deboli, agli esclusi. Non si tratta di aumentare il carico fiscale; si tratta di distribuirlo. Questo è il compito dello Stato.

Ma finora – bisogna dirlo – chi chiede a Letta di alleviare il malcontento, si guarda bene di indicargli le coperture, le risorse immediatamente disponibili.

Ho grande stima di Enrico Letta e gli sono amico, ma è adesso che deve parlare e non dica che non può fare miracoli che solo i malpensanti gli chiedono. I benpensanti – che vuol dire la gente consapevole – gli chiedono di fare subito quel che può essere fatto subito. Tra l’altro, proprio in questi giorni, è stato raggiunto un accordo di grandissima importanza sull’unione bancaria: in buona parte è merito di Letta e soprattutto di Mario Draghi.
Tassare ricchi e agiati si può.

Dare una stretta all’evasione e al sommerso si può.

Votare a maggio non si può. Parlare di legge elettorale con Verdini e Brunetta non si può. Debbo spiegare perché? Ma lo sapete tutti il perché.

Quando Alessandro per vincere contro eserciti cinque volte più potenti del suo, schierava i suoi uomini a falange, c’erano soltanto i macedoni a maneggiare lancia e scudo. Brunetta e Verdini e Grillo non sono arruolabili nella falange. Strano che Renzi non lo sappia o se lo dimentichi. Può essere un buon leader e forse vincente al giusto momento, ma di errori ne fa un po’ troppi e sarebbe bene che smettesse di farli. È giovane, si prepari per il futuro e intanto crei uno staff preparato, non di ragazzi che debbono ancora imparare a camminare.

Una parola tanto per concludere al capo di Confindustria, che dice di capire i forconi.

È un fatto positivo che Squinzi capisca i forconi e sono positive le richieste che fa per l’economia italiana.

Ma le imprese che rappresenta che cosa hanno fatto finora e da trent’anni a questa parte? Il “made in Italy” ha fatto, ma è una piccola parte dell’imprenditoria italiana che comunque merita d’esser segnalata e appoggiata.

Ma il resto?

Non ha fatto nulla. Ha tolto denari alle aziende abbandonando il valore reale per dedicarsi all’economia finanziaria. Ha ristretto le basi occupazionali; ha distratto i dividendi; spesso ha evaso; spesso ha delocalizzato. Non ha inventato nuovi prodotti e ha usato i nuovi processi produttivi per diminuire gli occupati.

A me piacerebbe sapere da Squinzi che cosa ha fatto dagli anni Ottanta il nostro sistema. Poi ha tutte le ragioni per chiedere, ma prima ci documenti su che cosa i suoi associati hanno dato. Così almeno il conto tornerà in pari.

Quanto al sindacato, vale quasi lo stesso discorso. Il sindacato rappresentava una classe che da tempo non c’è più. Adesso rappresenta i pensionati. Va benissimo, i pensionati hanno diritto ad essere rappresentati e tutelati, ma poi ci sono i lavoratori, gli anziani e i giovani, gli stabili e i precari.

A me non sembra che il sindacato se ne dia carico come si deve. Ripete le stesse cose; dovrebbe cercare il nuovo.

Si sforzi, amica Camusso. Questa è l’ora e il treno, questo treno, passa solo una volta.

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Emiliano Deiana
cagliari.globalist.it

Non è semplice fare una valutazione serena ed equilibrata sul Movimento dei Forconi.

È una cosa molto variegata che non si rassomiglia in nessuna parte d’Italia. In alcuni casi pacifica e colorata, in altri casi tetramente violenta ed minacciosa.

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