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Archive for the ‘Storia’ Category

Interno della Risiera di San Sabba a Trieste

Nel mio precedente post ho cercato di delineare come certi fenomeni storici eclatanti abbiano una gestazione lenta ma costante.

Credo che questo concetto, oltre ad essere enunciato, vada approfondito. Per farlo, vorrei ricorrere a una ricostruzione cronologica dei fatti – certi e documentati – che si succedettero in Italia durante il fascismo per quanto riguarda le persecuzioni razziali. Questa stessa ricostruzione mi piacerebbe contribuisse a limitare le affermazioni revisioniste e negazioniste che sempre più spesso si sentono e che tendono a voler dare un’immagine dell’Italia e degli italiani vittime inconsapevoli di eventi a loro estranei. A proposito del mito “Italiani brava gente” avevo scritto qualcosa nell’articolo “Rab, la Auschwitz dimenticata dagli italiani“, per cui non torno sull’argomento.

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Di fronte ad alcune decisioni che, proprio in questi giorni, vengono prese in Europa, è persino banale fare un accostamento con le vicende avvenute prima e durante la Seconda guerra mondiale.

Il 27 gennaio 1945, le avanguardie dell’avanzante Armata Rossa arrivarono nei pressi del campo di sterminio di Auschwitz e quello che videro sconvolse quei rudi soldati rotti a ogni esperienza. Per la prima volta, il mondo vide quale orrore era stato perpetrato ai danni di vittime innocenti: ebrei, zingari, omosessuali, disabili mentali, prigionieri politici e delinquenti comuni torturati, sfruttati e sterminati per il loro essere “diversi”.

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Valentina Parisi, Il Manifesto, 12 dicembre 2015

Oltre un milione e duecentomila donne sovietiche si precipitarono a rimpiazzare i soldati uccisi dai tedeschi, ma quasi nulla si sapeva di loro: «La guerra non ha volto di donna»

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Esattamente 151 anni fa, il 29 novembre 1864, si svolse uno dei peggiori massacri nella storia della conquista coloniale dell’America del Nord. Forse non per il numero di morti e feriti, ma per le modalità, particolarmente brutali con cui si svolge: una strage di donne, anziani e bambini pianificato fin nei minimi dettagli.

Sto parlando dell’assalto, da parte dell’esercito degli Stati Uniti all’accampamento di Cheyenne e Arapaho nei pressi del fiume Sand Creek. Un fatto storico che ha ispirato romanzieri (fra cui Salgari, Sulle frontiere del Far West), musicisti (ad esempio Fabrizio de André) e cineasti.

Quello degli indiani d’america fu probabilmente il più spietato sterminio della storia. Un intero popolo, milioni di individui pacifici che vivevano in perfetta simbiosi con il loro ambiente, furono uccisi con diversi mezzi, fra cui la guerra batteriologica, all’unico scopo di impossessarsi delle loro terre e delle risorse in esse contenute. A questo proposito, recentemente, ho deciso di avviare un progetto su Internet, in modo da divulgare il più possibile la storia dei pellerossa, le loro tradizioni e la loro filosofia di vita. Questo progetto, ancora agli albori, si chiama america[N]atives.

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Aldo Tortorella, Critica Marxista, n. 5/2013, 17 ottobre 2013

C’è stato un tempo in cui la parola “rivoluzione” faceva paura a coloro che venivano definiti i benpensanti. Ma non solo a loro. Nel linguaggio comune e in diversi dialetti (per esempio, il milanese) almeno fino alla metà del secolo passato – e anche oltre – “fare un quarantotto” voleva dire buttare tutto all’aria, creare un gran disordine, rovesciare le regole: e quel 48 entrato e rimasto nel lessico popolare per cent’anni era la rivoluzione del 1848, quella che aveva sconvolto gran parte d’Europa e per cui due trentenni d’ingegno, pieni di speranze, avevano scritto un opuscoletto, per incarico della Lega dei comunisti, senza immaginare che quel loro Manifesto per l’immediato avrebbe prodotto scarsi risultati ma sarebbe stato un successo editoriale secondo solo alla Bibbia.

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Benjamin Netanyahu

Che la storia non sia scienza esatta è risaputo. E che, purtroppo, possa essere riscritta a proprio uso e consumo è cosa altrettanto nota. Ma le dichiarazioni di Benjamin Netanyahu sono al di fuori di ogni logica, seppur aberrante.

I fatti. Al Congresso sionista mondiale, il premier israeliano ha dichiarato che Adolf Hitler non aveva alcuna intenzione di sterminare gli ebrei, ma avrebbe solo voluto espellerli dalla Germania e dai territori controllati dai nazisti. A questo punto, entrò in scena il perfido mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, che nel corso di un incontro a Berlino nel 1941 avrebbe detto al leader nazista: “Se tu li espelli, verranno tutti qui (in Palestina)”. Allora – sempre secondo Netanyahu – Hitler gli avrebbe chiesto: “Cosa dovrei fare di loro?”. E la risposta sarebbe stata: “Bruciali”.

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Alessandro Barile e Samir Hassan, Il Manifesto, 30 maggio 2015

Una florida pubblicazione di diari, ricordi, biografie e romanzi sull’esperienza partigiana, Mentre la storiografia continua a riproporre chiavi di lettura consolidate su una vicenda spartiacque nella storia repubblicana. Un percorso di lettura

Immagine tratta dal volume “Questa è guerra” (Marsilio editore)

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Michele Maniscalco, www.politicaprima.com, 30 aprile 2015

Michele Maniscalco

30 aprile 1947. Serata splendida di primavera. A San Giuseppe Jato i marciapiedi sono pieni di persone sedute davanti la porta a godersi il fresco serale. La televisione non esiste. I pochi fortunati che possiedono una radio alzano il volume al massimo e ascoltano le notizie dall’esterno. È anche un modo per ostentare l’oggetto posseduto.

I contadini con i pantaloni di velluto e la camicia di “sbarracanu” (una stoffa molto resistente che si usava per le camicie dei contadini) conversano con i vicini di casa. Nella maggior parte dei casi l’argomento principale della conversazione si concentra sulla festa del I° Maggio e il corteo che partendo da San Giuseppe Jato arriverà a Portella delle Ginestre. Le donne in casa a preparare il pasto serale e il companatico per la festa dell’indomani.

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Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato.

Sia ben chiaro per i componenti delle forze armate del cosiddetto governo fascista repubblicano che chi sarà colto con le armi in mano sarà fucilato.

Solo chi abbandona oggi, subito, prima che sia troppo tardi, volontariamente, le file del tradimento, solo chi si arrende al Comitato di Liberazione Nazionale, consegna le armi – quante armi può – ai patrioti avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti.

Il Comitato di Liberazione Nazionale e le formazioni armate del Corpo dei Volontari della Libertà non accettano e non accetteranno mai – in armonia con le decisioni dei capi responsabili delle Nazioni Unite – altra forma di resa dei nazifascisti che non sia la resa incondizionata.

Che nessuno possa dire che, sull’orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima via di salvezza.

Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.

  • Achille Marazza per la Democrazia Cristiana
  • Augusto De Gasperi per la Democrazia Cristiana
  • Ferruccio Parri per il Partito d’Azione
  • Leo Valiani per il Partito d’Azione
  • Luigi Longo per il Partito Comunista Italiano
  • Emilio Sereni per il Partito Comunista Italiano
  • Giustino Arpesani per il Partito Liberale Italiano
  • Filippo Jacini per il Partito Liberale Italiano
  • Rodolfo Morandi per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria
  • Sandro Pertini per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria

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Il 30 marzo, Pietro Ingrao ha compiuto 100 anni. Un secolo. Quasi tutto il Novecento e questo primo scorcio del nuovo millennio.

La sua storia è quella di un antifascista, di un dirigente comunista per certi versi scomodo, spesso critico nei confronti del Partito, ma sempre costruttivo. In ogni caso una lezione da imparare per noi uomini e donne delle generazioni successive.

Per questa occasione Il Manifesto ha pubblicato un corposo inserto, intitolato “La Storia di PIETRO” e qui ripropongo il lungo articolo introduttivo di Luciana Castellina

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Sono passati settantuno anni da quando i tedeschi fucilarono trecentotrentacinque (335) fra civili e militari italiani a titolo di rappresaglia per l’azione compiuta da un Gruppo di Azione Patriottica in via Rasella, dove vennero uccise 33 soldati del reggimento “Bozen”, appartenente alla Ordungpolizei dell’esercito tedesco, con reclutamento n Alto Adige.

Le Fosse Ardeatine, site nei pressi dell’omonima via, erano antiche cave di pozzolana e vennero scelte appositamente perché rendevano molto semplice l’occultamento dei cadaveri delle vittime. Nel dopoguerra sono state trasformate in un sacrario-monumento nazionale.

Rastrellamento negli immediati dintorni di via Rasella a Roma in una immagine d’archivio del 23 marzo 1944

Sulla questo pezzo di storia partigiana si sono scritti fiumi di inchiostro e ancora oggi qualcuno sostiene che i partigiani avrebbero dovuto astenersi da forme di lotta che avrebbero potuto portare allo sterminio di vittime innocenti, avallando in questo modo, seppure in modo sfumato, una tesi assolutoria nei confronti dei nazisti. In via Rasella, i gappisti attaccarono un reparto militare, componente di un esercito di occupazione. Le rappresaglie furono atti terroristici, attuati per ordine di Hitler (si parla, nel caso di via Rasella, senza che però fonti storiche lo registrino con esattezza, di un orfine del führer di trucidare 30 o 50 uomini per ogni soldato ucciso) con lo scopo di erodere il consenso che i partigiani riscontravano nella popolazione italiana e inibirne la volontà di ribellione.

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Alessandro Barile e Samir Hassan, Il Manifesto, 14 marzo 2015

Un aspetto deter­mi­nante dell’auto-narrazione nazio­nale, del rac­conto di noi stessi di cui veniamo dotati per per­ce­pirci nel mondo, con­si­ste nel descri­vere l’Italia e gli ita­liani come vit­time del corso acci­den­tato della sto­ria. Tale imma­gi­na­rio, figlio diretto del nazio­na­li­smo risor­gi­men­tale, assunto sin dalle parole del nostro inno –da secoli cal­pe­sti e derisi – ha pro­dotto col tempo anche il cor­re­lato degli ita­liani “brava gente”, rei­te­rato di volta in volta a giu­sti­fi­ca­zione bona­ria dei nostri sche­le­tri nell’armadio: dal colo­nia­li­smo dal volto umano al fasci­smo regime “minore”, e via dicendo. In anni più o meno recenti una gene­ra­zione di sto­rici ha prov­ve­duto a smon­tare tale “para­digma autoas­so­lu­to­rio”, inda­gando sulle respon­sa­bi­lità giu­ri­di­che, poli­ti­che ed eti­che dei governi ita­liani in campo nazio­nale e inter­na­zio­nale dall’800 ai giorni nostri. Un lavoro che però rimane con­fi­nato al dibat­tito acca­de­mico tra addetti ai lavori: l’ideologia sot­tesa all’istituzione del “giorno del ricordo”, così come la lunga que­relle con l’India riguardo alla vicenda dei “due marò”, con­fer­mano come tale impo­nente dibat­tito sto­rico non rag­giunga il piano politico-mediatico gene­ra­li­sta, quello desti­nato ad influen­zare l’opinione pub­blica. In effetti, in que­sti anni si è assi­stito, più che ad un con­creto revi­sio­ni­smo sto­rico in chiave acca­de­mica – ope­ra­zione que­sta sem­pre auspi­ca­bile – ad un vero e pro­prio uso poli­tico della sto­ria, volto a pie­gare par­ti­co­lari vicende del nostro pas­sato recente al fine di legit­ti­mare un discorso poli­tico con­tin­gente. L’evoluzione poli­tica di deter­mi­nati par­titi, la fine della pre­giu­di­ziale anti­fa­sci­sta, la neces­sità di sdo­ga­nare attori poli­tici dal pas­sato impre­sen­ta­bile, hanno riat­ti­vato in que­sti anni cli­ché reto­rici mai vera­mente superati.

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Oggi, in occasione dell’8 marzo, volevo scrivere qualcosa su questa festa, sulla mimosa e su Teresa Mattei, l’ultima delle grandi donne della Resistenza che fecero parte dell’Assemblea Costituente, in totale 21 “madri” costituenti. Questo articolo de Il Post mi ha evitato la fatica della ricerca e della elaborazione di un testo.

Non mi resta quindi altro da fare che ringraziare l’anonimo giornalista della testata online e concludere che la mimosa è il “fiore della partigiana”. (altro…)

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Oggi ho incontrato un’amica genovese che da anni si è trasferita a vivere alle Canarie, così mi è venuta voglia di fare una piccola ricerca e scrivere qualcosa sulla storia di queste isole, delle quali in effetti sapevo soltanto l’ubicazione geografica e il nome del navigatore Lanzerotto Malocello (da cui prende il nome l’isola di Lanzarote) che le scoprì nel XIV secolo.

Ad esempio non sapevo che Lanzerotto (o Lanzarotto) Malocello (o Maloxello) facesse parte di una antica e nobile famiglia genovese, fra le più note per le cariche ricoperte e per aver compiuto imprese memorabili. Non lo sapevo perché, a differenza di altre famiglie – i Doria, gli Spinola, ecc. – i Malocello non hanno lasciato palazzi, chiese, monumenti. O almeno, se esistono queste vestigia, io non ne sono a conoscenza.

Ma soprattutto non sapevo che la scoperta delle isole Canarie andasse inquadrata in un contesto più ampio, ovvero quello di una Repubblica Marinara potente che vedeva piano piano precludersi le vie di comunicazione verso l’Oriente a causa di una concorrenza sui mari sempre più intensa: Venezia, Bisanzio, i Musulmani. E i genovesi, che evidentemente erano attenti al soldo anche allora, cercarono di trovare altre rotte, altre vie per alimentare i propri commerci.

In quegli anni (la nostra storia inizia verso la fine del Duecento), la scoperta della bussola e il grande impulso dato alla tecnica cartografica, avevano fatto sì che si potesse pensare di circumnavigare l’Africa e arrivare così ai ricchi mercati asiatici delle spezie e della seta per via di mare. Anche allora, quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, era un’area di grande instabilità politica.

Nella primavera del 1291, i due fratelli Vadino e Ugolino Vivaldi, a bordo di due galee salparono dal porto di Genova alla volta delle Indie e della Cina. I loro concittadini seguirono la spedizione fin quando questa si svolse in acque o lungo le coste conosciute, quasi a voler rimarcare le grandi aspettative che accompagnavano questo viaggio. Ma, a un certo punto della loro spedizione, dei fratelli Vivaldi si persero le tracce e di loro non si ebbero mai più notizie.

Fu così che qualche anno dopo, nel 1312, Lanzerotto Malocello partì da Genova alla ricerca delle tracce della spedizione precedente. E con lui ha inizio la storia moderna delle isole Canarie, poiché approdò nella più settentrionale delle sette isole maggiori che, insieme ad altre due minori, compongono l’arcipelago.

Se vogliamo essere precisi da un punto di vista storico, quella di Malocello non fu una scoperta, bensì una riscoperta, poiché sembra che due popoli antichi di grandi navigatori, ovvero i fenici e i cartaginesi, ne conoscessero l’esistenza. In maniera sommaria, ne parlano Plinio il Vecchio e Claudio Tolomeo e si ritiene che le isole Canarie abbiano dato vita al mito greco del giardino delle Esperidi.

La prima menzione dell’Insula de Lanzarotus Marocellus, l’attuale Lanzarote, risale alla carta disegnata nel 1339 dal geografo medievale Angelino Dulcert nella quale si vede l’arcipelago.

Ma torniamo per un attimo alla storia della famiglia Malocello, perché è piuttosto interessante, così come viene riportata sul sito del Comitato promotore per le celebrazioni del VII Centenario della Scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello (1312 – 2012). Più ufficiale di così…

Lanzerotto Malocello

Nel 1235 Carbone Malocello comandava 12 navi e riuniva a bordo di esse tutti i genovesi di ceuta per esigere da l sultano riparazioni per depredazioni commesse ai loro danni. Una femmina della casata andò sposa nel secolo XIII ad un Giudice regnante ad Arborea. Un Jacopo fu l’ammiraglio genovese che fu sconfitto dai Pisani nel 1241 nella battaglia del Giglio. Nella villa di Pietro Malocello fu avvelenato il doge Simon Boccanegra.

Si tramanda che Lanzarotto Malocello abbia avuto i propri natali in Varazze [e forse è per questo che a Genova non viene abbastanza ricordato, NdR], ove oggi esiste una antica via del centro dedicata al suo nome. Alcuni membri della famiglia presero servizio in Francia come capitani di galee verso il 1340 e, nel tempo,francesizzarono il loro nome in “Maloisel”.

Il francese Charles De la Ronciere, uno dei più grandi esperti e studiosi in materia, rese noto che secondo un documento della Biblioteca Nazionale di Parigi, nell’anno 1659 una famiglia di gentiluomini normanni De Maloisel avrebbe rivendicato al merito di un suo antenato, Lancelot Maloisel, la qualità di primo scopritore delle isole Canarie, attestando che egli sarebbe approdato nel 1312 in un’isola che gli indigeni chiamavano Titeroygatra, nella quale avrebbe vissuto e regnato, avendo residenza in un castello, per oltre venti anni, sino a quando gli stessi indigeni, con l’aiuto dei vicini delle altre isole, non lo avrebbero scacciato.

Anche l’anonimo Frate francescano spagnolo, autore del notissimo “Libro del Conoscimiento” parla di Malocello, asserendo però che questi sarebbe stato ucciso dagli isolani.

Lo sbarco di Lanzarotto Malocello alle Canarie, per tutta una serie di motivi e di considerazioni, prevalenti e maggioritarie tra gli studiosi, puo’ collocarsi temporalmente nell’anno 1312.

Egli, partito da Genova alla ricerca dei coraggiosi fratelli Vivaldi, giunse nell’isola allla quale diede il suo nome,la Lanzarota (oggi Lanzarote), situata a sud della più piccola “Alegranza”, se ne impadronì e, a presidio del proprio dominio e di quello della Repubblica di Genova, vi costruì un castello, di cui due posteriori avventurieri francesi, Juan de Betancourt e Gadifer de la Salle, al loro arrivo a Lanzarote nel 1402, trovarono i resti diroccati.

Come già detto, però, è solo nel 1339 che appare la prima carta che menziona la “Insula de Lanzaroto Marocellus”, mentre più tardi, nel 1367 compare la carta dei fratelli Pizigani con il gruppo delle Canarie quasi al completo e, fatto inedito, sulla Lanzarota è disegnato lo stemma genovese e navi genovesi si notano veleggianti verso il sud.

Il nome di Lanzarotto Malocello e la bandiera genovese, stesa sul suolo in segno di jus di primo scoprimento, da allora in poi, vennero ripetuti su tutti i documenti cartografici che ci sono rimasti, marchio indelebile della scoperta italiana.

Si può ritenere, in proposito, che l’insistenza nella riproduzione dell’emblema di Genova dovesse significare per i cartografi del tempo non solo la priorità della scoperta del Malocello ma anche il segno di possesso o di protettorato politico dello Stato genovese.

Nei secoli successivi le Canarie divennero il crocevia di imbarcazioni provenienti da tutto il Mediterraneo e dalle coste portoghesi e divennero un crocevia per i commerci e per la tratta degli schiavi.

Al di là dell’importanza della scoperta, la spedizione di Malocello fu assai importante per almeno due ragioni:

  1. infranse il mito delle Colonne d’Ercole, fino ad allora considerate quasi il “confine del mondo”;
  2. spostando i confini del mondo conosciuto, contribuì ad alimentare la consapevolezza di una rotta verso Occidente, rotta che, poco meno di due secoli dopo, sarebbe stata solcata da un altro celebre genovese, Cristoforo Colombo.

Per concludere, una curiosità, un dato che mi ha colpito (e, se vogliamo essere un po’ polemici, un vero e proprio anacronismo). Le Canarie, come si può vedere dalla cartina sottostante, dal punto di vista geografico appartengono all’Africa, sulla cui piattaforma continentale sono collocate. Ma, poiché dal punto di vista politico sono spagnole, il vulcano del Teide, che si trova sull’isola di Tenerife, con i suoi 3718 metri è il monte più alto della Spagna.

La posizione geografica delle Canarie, di fronte al Marocco meridionale

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Giacomo Matteotti

Il 10 giugno 1924 veniva rapito e ucciso Giacomo Matteotti, trentanovenne deputato socialista.

Pochi giorni prima, in un vibrante intervento alla Camera dei Deputati, Matteotti, segretario del Partito socialista unitario, aveva denunciato i brogli elettorali commessi dai fascisti. Probabilmente era ben conscio del rischio che stava correndo, ma non si fermò, andò avanti, proclamando la verità. Il discorso di Matteotti del 30 maggio 1924 è rintracciabile sul sito della Camera dei Deputati, in copia anastatica dei resoconti stenografici. Ne esistono anche diverse trascrizioni più comodamente leggibili, Ad esempio questa su Wikisource.

Il discorso di Matteotti, mettendo in luce possibili alterazioni del risultato elettorale, solleva interrogativi in seno agli organi di informazione e nel contempo desta preoccupazioni nel governo di Mussolini. Il duce, temendo sollevazioni popolari, dà quindi ordine a uno dei suoi sicari, Amerigo Dumini, di rapire e uccidere il deputato socialista.

Passati due giorni dalla scomparsa, la famiglia e i compagni di partito, rappresentati dal deputato Modigliani, chiedono notizie alle autorità, ma il questore Bertini fornisce spiegazioni vaghe e rifiuta l’apertura di un’indagine. La vicenda è narrata nel famoso film del 1973, Il delitto Matteotti, di Florestano Vancini, Fra gli interpreti Umberto Orsini, Franco Nero, Renzo Montagnani e Vittorio De Sica, del quale qui potete trovare la trama, che ripercorre fedelmente la vicenda storica.

Quello che mi interessa non è ricordare per l’ennesima volta la trama di uno dei delitti politici più importanti e noti della storia italiana, bensì notare come, a volte, anche nel nostro Paese vi siano state persone disposte a lottare, da sole contro tutto e tutti, per affermare un ideale universale.

Novant’anni dopo, voglio ricordare Giacomo Matteotti con una sua frase, sulla quale sarebbe opportuno riflettere nel tentativo faticoso di ridare un senso alla parola socialismo nel nostro ventunesimo secolo.

Il socialismo non sta per noi in un aumento di pane o in più alto salario. Il socialismo parte dalla realtà dolorosa del lavoratore che giace nella abiezione e nella servitù materiale e morale, e intende e opera a sollevarlo e a condurlo a miglioramenti economici e intellettuali, a libertà sociale e a libertà spirituale, sempre più alte. Vuole cioè formare e realizzare in lui l’uomo che vive, fratello e non lupo, con gli Uomini, in una umanità migliore, per solidarietà e per giustizia.

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Nel 2010, per la prima volta, in Francia viene celebrato un fatto fino ad allora dimenticato: la rivolta di Sinti e Rom nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.

A promuovere l’iniziativa è stato un sopravvissuto allo sterminio, Raymond Guerené, coadiuvato dall’Associazione La Voix de Rom, con uno spettacolo nel quale canta la canzone che le sue sorelle gli avevano dedicato mentre erano recluse nel lager.

Il 16 maggio 1944 i quattromila Rom internati ad Auschwitz decisero di opporsi ai loto carnefici che, secondo programma, erano venuti a prelevarli per condurli nelle camere a gas. Armati con pietre, spranghe e altre armi rudimentali, uomini, donne e bambini si avventarono contro le SS che lasciarono sul campo diversi morti.

Solo il 2 agosto, dopo aver ridotto alla fame la comunità rom del campo di concentramento, i nazisti riuscirono a sedare la rivolta e, in un sola notte riuscirono a uccidere 2897 internati.

Rom e Sinti chiamano il loro sterminio Samudaripen (letteralmente “tutti morti”) oppure PorrajmosPorajmos (che significa “grande divoramento, devastazione”).

Purtroppo non ho trovato una riproduzione video dello spettacolo di Raymond Guerené. Ho ripiegato, quindi, sul più banale dei classici. Ma sempre PER NON DIMENTICARE.

Fonte: Sugli Zingari.

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Il 15 febbraio di 450 anni fa (sembra ieri!) nasceva a Pisa uno dei più grandi geni della storia, colui che universalmente viene ricordato come l’inventore del metodo scientifico sperimentale. Fra l’altro, sull’argomento ho già scritto qualcosa a proposito del bellissimo spettacolo di Marco Paolini “ITIS Galileo”.

Galileo fu uno sperimentatore in molti ambiti della scienza e dicono facesse lezioni di matematica bellissime, anche se cercava di farne il meno possibile perché non si sentiva portato all’insegnamento. La leggenda dice che preferisse frequentare osterie e passare il tempo in dolce compagnia.

Teoria dell’isocronismo del pendolo

Uno degli oggetti che più lo affascinavano era il pendolo, strano strumento che si comportava in modo anomalo rispetto a quelle che erano le teorie comunemente accettate all’epoca, a partire dalla riscoperta di Aristotele. Il filosofo greco, infatti, aveva ipotizzato che gli oggetti cadessero a terra perché desiderosi di recuperare la loro posizione iniziale. Ma il pendolo smentiva questa ipotesi. Infatti, se lo si lasciava oscillare, tutto faceva tranne fermarsi sulla perpendicolare. Ai tempi non esistevano strumenti di misurazione di precisione (per la loro realizzazione in parte contribuirono anche le scoperte del nostro, vedi l’orologio a pendolo che si basa sul principio che sto per enunciare) e fu così che Galileo ebbe l’intuizione di far mettere spalla contro spalla due suoi studenti, entrambi muniti ciascuno di un pendolo. I due attrezzi vennero fatti oscillare con diverse ampiezze, mentre i due tapini dovevano contare mentalmente i loro passaggi sulla perpendicolare. Una volta arrivati a cento avrebbero dovuto pronunciare quel numero ad alta voce. Entrambi lo pronunciarono contemporaneamente ed ecco come venne scoperto che il pendolo, indipendentemente dall’oscillazione, impiega sempre lo stesso tempo a fare una oscillazione completa. Se vogliamo farla difficile, si chiama “teoria dell’isocronismo del pendolo”. Su questo principio si basano orologi e, sempre sulla base di questo principio, Foucault poté dimostrare la rotazione della terra.

Galileo, inoltre, scriveva molto bene. Era un divulgatore scientifico ante litteram. Illustrò il moto relativo con la famosa metafora della nave. Se poniamo degli uomini nella cabina di una nave e insieme a loro liberiamo alcuni insetti e dei pesci dentro a una vasca, oltre a un catino per raccogliere l’acqua gocciolante, notiamo che il movimento della nave, se costante e privo di scossoni, non influenzerà in alcun modo l’ambiente della cabina. Gli insetti continueranno a volare allo stesso modo, l’acqua a sgocciolare verticalmente dentro il catino e i pesci a nuotare indisturbati nella loro vasca. In sostanza, tutto ciò che è contenuto in un sistema inerziale chiuso e autonomo (ovvero in un luogo in cui tutto si muove alla stessa velocità, indipendentemente dalla velocità degli altri sistemi inerziali) è soggetto alle stesse leggi fisiche. Se volete fare una prova – ma non dite che ve l’ho suggerito io – salite sull’ultimo vagone di un treno (almeno non rischiate di far male a qualcuno) con un sasso, mettetevi nel corridoio e lasciate cadere il sasso. Vi cadrà in mezzo ai piedi. Poi provate ad aprire il finestrino e a lasciar cadere il sasso fuori dal treno, ovvero in un altro sistema inerziale e, se avrete fatto come ho detto io, ovvero vi sarete posizionati in fondo al treno, potrete dire addio al vostro sasso-

Galileo di fronte al Sant’Uffizio

E veniamo al punto della famosa abiura di Galileo. A parte il fatto che se non avesse abiurato la scienza ne avrebbe ricevuto un gravissimo danno, Galileo fu fortemente aiutato a prendere la decisione di smentire le proprie teorie. Il processo ebbe luogo dal 12 aprile 1633 e le udienze si tennero fino al 22 giugno dello stesso anno. L’accusa era di quelle pesanti (eresia) e il tribunale non brillava certo per il suo rispetto dei diritti dell’imputato, visto che si trattava del famigerato Tribunale della Santa Inquisizione. Fu così che Galileo venne condannato e costretto ad abiurare, per aver salva la vita. Ancora oggi, alcuni duri e puri, di quelli che lo sono tendenzialmente quando c’è in ballo la pelle di qualcun altro (e avrei potuto dirlo in altro modo, ma mi sono ripromesso di non scrivere parolacce…) sostengono che, se Galileo fosse stato realmente coerente con i suoi principi, avrebbe dovuto accettare la condanna e farsi bruciare vivo. Dimenticano un piccolo particolare: quando Galileo venne “invitato” a Roma a partecipare al suo processo (e abbiamo visto che è durato più di due mesi) venne “ospitato” nella stessa stanza in cui era stato ospitato precedentemente tale Giordano Bruno.

Credo che in questo modo diedero al buon Galileo parecchi spunti su cui meditare.

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Pierluigi Casalino, Sanremo News, 13 febbraio 2014

Per questioni legate alla concessione a Genova dell’isola greca di Tenedo da parte dell’imperatore bizantino Andronico Paleologo, che ribaltò in tal modo la politica del padre Giovanni V, filoveneziano, nel 1378 esplose un nuovo conflitto globale tra la Serenissima e la Superba. Il 30 maggio di quell’anno appunto, dopo l’azione sobillatrice di Barnabò Visconti, alleato di Venezia, sulle città della Riviera di Ponente, con la battaglia di Capo d’Anzio, nella quale la flotta genovese di Luigi Fieschi fu sconfitta da quella veneziana di Vettor Pisani, attiva nel Mar Tirreno.

La rivincita genovese non tardò e si ebbe nelle acque di Pola al largo di Capo Promontore, esattamente un anno dopo, con la vittoria riportata da Luciano Doria sullo stesso Pisani, che era passato in Adriatico, dove le operazioni belliche si erano spostate. Il Doria perse la vita nella battaglia, ma i genovesi occuparono Chioggia, bloccandola per mare e minacciando direttamente la stessa Venezia. La controffensiva veneta si sviluppò fino alla resa di Pietro Doria, parente di Luciano, nonostante l’occupazione di Trieste da parte ligure. La pace di Torino sancì una pace senza vinti, né vincitori e che ebbe il solo effetto di avvantaggiare i Turchi a spese delle due repubbliche marinare. A Genova, a seguito di gravi tumulti, assunse il potere il doge Antoniotto Adorno, il quale fece liberare Papa Urbano VI dalla prigionia di Nucera dove l’aveva relegato il re di Napoli, Carlo Durazzo: fu così che Genova divenne sede provvisoria della Chiesa di Roma per circa quindici mesi. Per la concessa ospitalità, il Pontefice, Genova ottenne piccoli fondi ecclesiastici della Riviera di Ponente, sottratti ai vescovi di Albenga, Noli e Savona. Attraverso una saggi politica territoriale, ‘Adorno si assicurò il possesso, non con le armi, ma con il denaro, di terre e castelli, tra cui Pieve di Teco.

Genova in una xilografia di Hermann Schedel (1493)

Genova in una xilografia di Hermann Schedel (1493)

In politica estera l’Adorno si assicurò nel 1388 Djerba e la Sirte tunisina, partecipando l’anno successivo ad una spedizione franco-genovese, che pose sotto assedio al-Mehedia per poi concludere un favorevole trattato di commercio con il Sultano di Tunisi: in quell’epoca, si dice, olivicoltori liguri di Ponente trapiantarono ulivi originari del Ponente nell’isola davanti a Sfax. L’Adorno, per motivi tuttora non chiari, si dimise dalla carica, dopo anni di governo, per ritirarsi a

Finale. Nel 1391, tuttavia, l’Adorno rientrò a Genova con ottocento armati; poco più tardi, le grandi inimicizie lo costrinsero nuovamente ad abbandonare il potere. Il 3 settembre 1394, Adorno, tuttavia, per la terza volta, tornò ad essere Doge di Genova. La Francia, sia su richiesta di avversari politici di Adorno, che per mire politico-territoriali sulla città, investì Savona, che, ostile da sempre a Genova, si diede ai Francesi. Adorno perfezionò un accordo segreto tra  la Francia e l’Adorno.

Non ebbe altra scelta che entrare in trattativa diretta con i francesi di Carlo VI, che già stavano estendendo la loro egemonia in Italia. l’Adorno promosse un’intesa con i francesi per inserire la Liguria nel sistema francese, anticipando una mossa che puntava a destinare Genova e il resto della regione alla Francia. Non molto dopo il dominio francese di Carlo VIII si abbatté su Genova e la Liguria a partire dalle piazzeforti di Ventimiglia, Sanremo e sempre più verso Levante. Anche i tradizionali e  cospicui interessi liguri in Provenza furono inglobati dai francesi.

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Marco Dotti, Il Manifesto, 11 febbraio 2014

Come è stato pos­si­bile che, fra tanti, sul trono di Pie­tro si sia infine seduto pro­prio un cri­stiano? Han­nah Arendt si sentì porre que­sta domanda, in forma sem­plice e diretta, da una came­riera romana. La donna – sem­plice e schietta come le sue parole, che d’altronde inter­pre­ta­vano un sen­ti­mento dif­fuso — subito aggiunse: «non ha forse dovuto essere nomi­nato vescovo, arci­ve­scovo e car­di­nale, prima di essere infine eletto papa? Nes­suno si era accorto di chi fosse real­mente?». La rispo­sta, ovvia­mente, ten­deva al «no, non si erano accorti» e Arendt ricor­derà, ripro­po­nen­dole, domanda e rispo­sta in un arti­colo del 1965, tito­lato The Chri­stian Pope, ori­gi­na­ria­mente apparso sulla New York Review of Books, suc­ces­si­va­mente con­fluito nel volume Men in Dark Times e ora ripre­sen­tato, per la cura di Paolo Costa, al let­tore ita­liano (Il papa cri­stiano. Umiltà e fede in Gio­vanni XXIII, EDB, pp. 46, euro 5).

«Papa cri­stiano» diventa quasi un ossi­moro se letto attra­verso la lente offerta dalla came­riera romana. Reli­gio­sità popo­lare e tiara sem­bra­vano diver­gere radi­cal­mente, fino all’eccezione di Gio­vanni XXIII. Soprat­tutto per­ché sul pon­ti­fi­cato di Gio­vanni XXIII (dal 28 otto­bre 1958 al 3 giu­gno 1963), al secolo Angelo Giu­seppe Ron­calli, le testi­mo­nianze e gli aned­doti di vita quo­ti­diana con­cor­dano pro­prio sul punto: fu un uomo sem­plice e di vera fede, pra­tico e deciso, ma anche ricco di scal­trezza con­ta­dina – tutto il con­tra­rio di un papa intel­let­tuale, insomma. È pro­prio su quella che a molti parve roz­zezza masche­rata da bontà che si con­densa la rifles­sione – breve, ma inci­siva – che Arendt dedica al pro­filo sin­go­lare di un uomo che alla bana­lità del male oppose la quo­ti­dia­nità pra­tica del bene. Lo stesso Ron­calli anno­tava che molti lo con­si­de­ra­vano un «papa di tran­si­zione». A sor­pren­dere non è tanto il fatto che non fosse nella lista dei papa­bili ma, com­menta Arendt, che «nes­suno si fosse accorto di chi egli real­mente fosse, e che venne eletto pro­prio per­ché tutti lo con­si­de­ra­vano una figura di scarso peso».

Rileg­gendo Il gior­nale dell’anima (a cura di Loris Fran­ce­sco Capo­villa, edi­zioni di Sto­ria e Let­te­ra­tura, Roma 1964), il dia­rio spi­ri­tuale di Ron­calli uscito in tra­du­zione inglese nel 1965, Arendt parla di un libro «stra­na­mente delu­dente e stra­na­mente affa­sci­nante». E cerca pro­prio in quella serie di anno­ta­zioni la rispo­sta alla domanda che cir­co­lava sulla bocca di molti e che la came­riera romana non faceva che con­den­sare in forma diretta: chi era l’uomo che, tra la fine di mag­gio e l’inizio di giu­gno del 1963 gia­ceva sul letto di morte in Vati­cano? Che molti lo con­si­de­ras­sero un «min­chione» (l’espressione è di Ron­calli) non era un mistero, ma che quell’uomo si inscri­vesse nella linea di coloro che spesso in silen­zio e umiltà hanno pra­ti­cato, e non solo pre­di­cato, l’imi­ta­tio Chri­sti è un pro­blema ben più ampio che attiene pro­prio la quo­ti­dia­nità del bene e il suo «movi­mento», rispetto alle dina­mi­che della Chiesa-istituzione. «Dicono e cre­dono che io sia un min­chione. Lo sarò anche, ma il mio amor pro­prio non lo vor­rebbe cre­dere. È qui il bello del gioco», scri­veva Ron­calli. Eppure, alla fine, il suo «gioco» con­qui­stò e la Chiesa e il mondo. Ma non fu sem­plice, come ricorda Arendt, per­ché «nel bel mezzo del nostro secolo quest’uomo ha deciso di pren­dere alla let­tera ogni arti­colo di fede che gli era stato inse­gnato». Eppure, que­sto pren­dere alla let­tera, non fu sem­plice e tanto gli anni tra­scorsi in Bul­ga­ria, quanto quelli pas­sati a Istan­bul furono «una vera croce» a causa delle dina­mi­che della diplo­ma­zia vaticana.

C’è però un pas­sag­gio, inte­res­sante, nella let­tura di Arendt. È il richiamo alla «resi­stenza» rispetto alla sedu­zione intel­let­tuale che molti cre­denti hanno eser­ci­tato su pen­sa­tori atei e cri­tici laici. Le sue pagine risul­tano dure e per­sino ste­rili, se lette con la lente dell’appassionato di teo­lo­gia. «Gene­ra­zioni di intel­let­tuali moderni, quando non erano atei – cioè scioc­chi che fin­ge­vano di sapere ciò che nes­sun uomo può sapere – hanno impa­rato da Kier­ke­gaard, Dostoe­v­skij, Nie­tzsche e dai loro nume­ro­sis­simi seguaci, den­tro e fuori il movi­mento esi­sten­zia­li­sta, a con­si­de­rare ’inte­res­santi’ le que­stioni teo­lo­gi­che. Senza dub­bio per tutti costoro sarà dif­fi­cile com­pren­dere un uomo che, sin dalla tenera età, aveva ’fatto voto di fedeltà’ non solo alla ’povertà mate­riale’, ma a quella di ’spirito’».

In fondo, pre­scin­dendo dalla domanda su chi dav­vero fosse Gio­vanni XXIII è in que­sto suo non essere mai stato intel­let­tuale in senso lata­mente bor­ghese. Fu sem­pre un pes­simo stu­dente, non leg­geva molti libri, amava solo i quo­ti­diani. Sciocco? Scal­tro? O solo un uomo real­mente povero di spi­rito? La domanda rimane, eppure è pro­prio sul fon­da­mento di que­sta domanda – la sua povertà di spi­rito — che risiede la capa­cità di inci­dere sull’attimo, sul pre­sente, sulle dina­mi­che pro­fonde del quo­ti­diano di un uomo mai privo di visione come fu Ron­calli. Fino alle sue ultime parole, pro­nun­ciate in fin di vita, che rilan­ciano a noi la que­stione: «ogni giorno è buono per nascere, ogni giorno è buono per morire». Tutti, però — e qui sta la chiave — sono «buoni» per agire.

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Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa – più precisamente la 60ª armata del Primo fronte ucraino – arriva nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco: Aushwitz). Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiungono il complesso di Aushwitz-Birkenau-Monowitz. Verso le ore 15.00 i soldati sovietici abbattono i cancelli del campo di sterminio e liberano circa 7.650 prigionieri.

Elenco parziale delle vittime dei campi di concentramento nazisti:

  • 5.6-6.1 milioni di ebrei;
  • 3,5-6 milioni di civili slavi;
  • 2.5-4 milioni di prigionieri di guerra;
  • 1-1,5 milioni di dissidenti politici;
  • 200-800 mila tra Rom e Sinti;
  • 200-300 mila portatori di handicap;
  • 10-250 mila omosessuali;
  • 2 mila testimoni di Geova.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Bertolt Brecht

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