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Posts Tagged ‘fascismo’

Paolo Ciofi, 3 marzo 2016

Altiero Spinelli, confinato a Ponza nel giorno del suo trentunesimo compleanno

Le scoperte di Scalfari – è cosa nota – hanno sempre una caratteristica tipicamente scalfariana: devono comunque fare colpo. In altre parole, o sono epocali o non sono. Anche di recente il padre fondatore della libera stampa, cioè di Repubblica, l’ha fatta grossa. Ha scoperto, niente po’ po’ di meno, che Renzi avrebbe impugnato «la bandiera europea di Spinelli». Roba da fare invidia a Cristoforo Colombo, ma di cui il combattente per l’«Europa libera e unita» certamente non sarebbe orgoglioso.

Fino a domenica 28 febbraio 2016 il fondatore credeva «che Renzi fosse andato inutilmente a Ventotene», e adesso «invece – sono parole sue – il messaggio contenuto nel Manifesto firmato da Spinelli, Rossi e Colorni è stato, almeno così sembra, fatto proprio da Renzi». Ma è davvero così? Sembra, o è il contrario di quel che sembra? Analizziamo i fatti.

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Claudio Vercelli, Il Manifesto, 2 settembre 2015

L’importante volume di Philip Cooke L’eredità della Resistenza passa criticamente in rassegna le prospettive interpretative su un fenomeno che ha visto manifestarsi una molteplicità di intenzioni, culture politiche e soggetti sociali

Per cele­brare la sua «resi­stenza» per­so­nale con­tro l’allora «editto bul­garo» – cor­reva l’anno 2002 e Sil­vio Ber­lu­sconi da Sofia aveva appena messo all’indice tre note firme della Rai – un gigio­ne­sco ed ego­cen­trico Michele San­toro cantò, in esor­dio della sua tra­smis­sione, alcune strofe di «Bella ciao». Fu uno stra­zio di note, di tona­lità e di ragioni ma l’escamotage dell’identificarsi con i motivi, non solo canori, della lotta di Libe­ra­zione parve fun­zio­nare. L’autobeatificazione, infatti, pagò. Ber­lu­sconi oggi sta die­tro le quinte della poli­tica, pur con­ti­nuando a mano­vrarne alcuni set­tori, men­tre San­toro con­ti­nua a reci­tare sul pal­co­sce­nico media­tico la sua par­ti­tura. Pari e patta. Quasi due facce della mede­sima meda­glia, ancor­ché di conio dif­fe­rente. Detto que­sto, qual è il vero nesso tra le abili com­par­sate pub­bli­che di un popu­li­sta tele­vi­sivo e una tra­iet­to­ria, quella com­piuta dalla memo­ria col­let­tiva della Resi­stenza, nelle sue mol­te­plici decli­na­zioni? Più pro­pria­mente, insieme ad un’identità esi­ste anche un’eredità della Resistenza?

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Trovo che in questa frase di Primo Levi ci sia una perfetta descrizione della situazione attuale, a partire dalla Grecia dove certi fenomeni sono più evidenti. Ma attenzione, i segnali ci sono, e forti, anche in casa nostra. Sta a noi saperli cogliere e combattere.

Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà.

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La prima pagina dei Quaderni del Carcere

Circa un anno e mezzo fa, all’inizio dell’avventura di questo blog, quando avevo annunciato la mia intenzione di trascrivere i Quaderni del Carcere non sapevo dove questa idea mi avrebbe portato, quanto tempo ci avrei messo, che tipo di risultato avrei ottenuto,

Innanzitutto il progetto, mano a mano che andavo avanti, si è arricchito di nuovi contenuti e nuove idee, che ho cercato di esporre in breve in questa pagina del sito. Un lavoro che mi occuperà ancora per svariati mesi, se non addirittura anni.

Ora che il primo passo, la trascrizione, è stato completato, mi permetto di fare alcune valutazioni. Le faccio in punta di tastiera, con notevole timore reverenziale, perché sto scrivendo di uno dei giganti del pensiero europeo dello scorso secolo. Ma non posso esimermi dal farlo, perché trovo riprovevole che – di Gramsci – se ne parli di più all’estero che in Itaila. Altri, che hanno dedicato la vita a studiarne l’opera hanno fatto notare come Gramsci si sia confrontato con i massimi intellettuali del suo tempo, abbia aperto vie di ricerca in materie quali la storia della letteratura, la critica, l’estetica. Abbia trattato di Dante, di Benedetto Croce, di Giovanni Gentile, di Karl Marx; di filosofia, storia, letteratura, sociologia.

Personalmente, due cose mi hanno stimolato: il metodo di lavoro e lo scopo di Gramsci.

Il metodo di lavoro è interessante e, grazie alla trascrizione, che oltre a leggere mi costringeva a rileggere, mi è apparso evidente. Gramsci prende appunti, costituiti di brevi note e poi li rielabora in più passaggi successivi, affinandoli e dettagliandoli. In lui, è costante la ricerca di nessi che possono essere storici o logici. Emergono chiaramente quelli che sono i passaggi chiave, a volte costituiti da date simbolo, altre da fatti particolarmente rilevanti, che hanno portato l’Italia e l’Europa degli anni Trenta a essere quella che era, così come la memoria prodigiosa dell’autore, testimonianza di precedenti studi molto approfonditi.

Dal punto di vista dello scopo, Gramsci ha ben presente l’obiettivo di trasformare la società in chiave anticapitalistica. Per farlo prevede un gigantesco piano di formazione culturale, politica, sociale del proletariato e contemporaneamente si interroga su quello che, all’epoca, era il modello di produzione vincente: la fabbrica fordista. È attentissimo, e in questo è anche modernissimo, alle forme di comunicazione, alla ricerca del linguaggio adatto per veicolare i diversi messaggi a seconda dei diversi pubblici. (Spesso mi ritrovavo a pensare a quali risultati sarebbe potuta giungere la produzione di Gramsci con i mezzi tecnici disponibili oggi, ma queste sono domande che mai avranno risposta e che, quindi, lasciano il tempo che trovano). E lo fa da politico, più che da filosofo, perché sempre pone l’attenzione agli aspetti concreti del suo pensiero.

Infine, ma tutte queste banali riflessioni sono strettamente personali e non supportate da letture e confronti con altri, mi ha stupito l’assenza di odio nelle parole di Gramsci. Per il nostro, il fascismo è un incidente di percorso, qualcosa che presto passerà, uno scherzo della storia e in quanto tale va trattato, indipendentemente dalla situazione di carcerato politico. Più importanti per lui, perché più motivate dal punto di vista profondamente culturale, sono altre questioni, ad esempio il conflitto ideologico in atto in Unione Sovietica e la necessità di spiegare a un pubblico vasto la filosofia della praxis.

quadernidelcarcere.wordpress.com

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Libre – associazione di idee, 20 giugno 2015

Matteo Renzi e Sergio Marchionne

Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».

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Alessandro Barile e Samir Hassan, Il Manifesto, 14 marzo 2015

Un aspetto deter­mi­nante dell’auto-narrazione nazio­nale, del rac­conto di noi stessi di cui veniamo dotati per per­ce­pirci nel mondo, con­si­ste nel descri­vere l’Italia e gli ita­liani come vit­time del corso acci­den­tato della sto­ria. Tale imma­gi­na­rio, figlio diretto del nazio­na­li­smo risor­gi­men­tale, assunto sin dalle parole del nostro inno –da secoli cal­pe­sti e derisi – ha pro­dotto col tempo anche il cor­re­lato degli ita­liani “brava gente”, rei­te­rato di volta in volta a giu­sti­fi­ca­zione bona­ria dei nostri sche­le­tri nell’armadio: dal colo­nia­li­smo dal volto umano al fasci­smo regime “minore”, e via dicendo. In anni più o meno recenti una gene­ra­zione di sto­rici ha prov­ve­duto a smon­tare tale “para­digma autoas­so­lu­to­rio”, inda­gando sulle respon­sa­bi­lità giu­ri­di­che, poli­ti­che ed eti­che dei governi ita­liani in campo nazio­nale e inter­na­zio­nale dall’800 ai giorni nostri. Un lavoro che però rimane con­fi­nato al dibat­tito acca­de­mico tra addetti ai lavori: l’ideologia sot­tesa all’istituzione del “giorno del ricordo”, così come la lunga que­relle con l’India riguardo alla vicenda dei “due marò”, con­fer­mano come tale impo­nente dibat­tito sto­rico non rag­giunga il piano politico-mediatico gene­ra­li­sta, quello desti­nato ad influen­zare l’opinione pub­blica. In effetti, in que­sti anni si è assi­stito, più che ad un con­creto revi­sio­ni­smo sto­rico in chiave acca­de­mica – ope­ra­zione que­sta sem­pre auspi­ca­bile – ad un vero e pro­prio uso poli­tico della sto­ria, volto a pie­gare par­ti­co­lari vicende del nostro pas­sato recente al fine di legit­ti­mare un discorso poli­tico con­tin­gente. L’evoluzione poli­tica di deter­mi­nati par­titi, la fine della pre­giu­di­ziale anti­fa­sci­sta, la neces­sità di sdo­ga­nare attori poli­tici dal pas­sato impre­sen­ta­bile, hanno riat­ti­vato in que­sti anni cli­ché reto­rici mai vera­mente superati.

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Guido Liguori, Il Manifesto, 4 marzo 2015

Venerdì a Roma un convegno su «Enrico Berlinguer e l’Europa»

Enrico Ber­lin­guer è morto nel 1984, ma molte delle sue idee-forza pos­sono essere utili ancora oggi. Anche per quel che con­cerne la poli­tica inter­na­zio­nale – vera e pro­pria pas­sione del comu­ni­sta sardo e pal­co­sce­nico cen­trale della sua atti­vità poli­tica – e in par­ti­co­lare lo sce­na­rio euro­peo, le pro­spet­tive della sini­stra oggi in Europa, dopo la vit­to­ria di Tsi­pras in Gre­cia. È a par­tire da que­ste con­vin­zioni che Futura Uma­nità, l’associazione nata per stu­diare e dif­fon­dere «la sto­ria e la memo­ria del Pci», insieme alle fon­da­zioni e agli isti­tuti cul­tu­rali della Linke e di Syriza e al gruppo par­la­men­tare euro­peo Gue/Ngl, hanno pro­mosso un incon­tro inter­na­zio­nale in pro­gramma per venerdì pros­simo a Roma (Audi­to­rium di via Rieti 11, dalle ore 9.30). Sia per ricor­dare l’eurocomunismo di Ber­lin­guer, il suo dia­logo con le cor­renti di sini­stra delle social­de­mo­cra­zie euro­pee, il suo pro­fi­cuo incon­tro con Altiero Spi­nelli; sia per valu­tare il cam­mino fatto e da fare per «la costru­zione di una sini­stra nuova in Europa», come recita una ses­sione del convegno.

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Moni Ovadia

Se non si stesse parlando di una vicenda tragica – quella del popolo palestinese – ci sarebbe da ridere. La nostra Camera dei Deputati, composta come è noto di nominati per mezzo di una legge incostituzionale, è riuscita nell’impossibile: votare, nel giro di pochissimo tempo, due mozioni sostanzialmente contraddittorie. Complimenti!

Sulla vicenda Giusy Baioni (Nuova Atlantide) ha intervistato Moni Ovadia il 27 febbraio 2015.

Vediamo cosa dice.

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Giacomo Scotti

Ho raggruppato qui tre articoli di Giacomo Scotti, pubblicati su Il Manifesto qualche anno fa (credo nel 2005). Scotti è un giornalista e scrittore (nonché traduttore) specializzato in tutto ciò che riguarda la storia e la cultura della zona di confine fra Italia, Slovenia e Croazia. Nel 1947, antifascista e comunista, decise di trasferirsi in Istria, appena ceduta dall’Italia alla Jugoslavia di Tito. Visse prima a Pola e poi a Fiume. Per la sua produzione letteraria ha ricevuto diversi premi. Sul tema delle foibe la sua opera più conosciuta è probabilmente Dossier foibe, Manni 2006.

1 – Foibe. Così iniziò la stagione di sangue

Le stragi istriane vanno inserite nel contesto storico della guerra fascista e nazista alle popolazioni slave. Contro ogni strumentalizzazione, ma anche contro ogni rimozione

«Si ammazza troppo poco», e «Non dente per dente, ma testa per dente», raccomandavano nel 1942 i generali italiani Marco Robotti e Mario Roatta. Furono 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia, Bocche di Cattaro e Montenegro

Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe istriane – ma comprensione non significa affatto giustificazione di quei crimini – è assolutamente necessario inserire la questione nel contesto storico in cui si verificò e nel quadro più ampio del periodo tra la fine della prima e lo svolgimento della seconda guerra mondiale. Un periodo che fu particolarmente tragico per una larga parte della popolazione istriana venutasi a trovare inserita nel territorio di frontiera di un’Italia asservita al regime fascista e perciò negata a governare con giustizia territori plurietnici, plurilingui e multiculturali, spinta a realizzare un preciso programma di oppressione e snazionalizzazione dei sudditi cosiddetti allogeni e alloglotti. Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l’Istria all’Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell’Istria si trovò di fronte allo squadrismo in camicia nera, importato da Trieste, che si manifestò con particolare aggressività e ferocia. Gli stessi storici fascisti, tra i quali l’istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti – dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola ed altri – alla distruzione delle Camere del lavoro ed all’incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la creazione del regime: furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia; migliaia di persone finirono al confino. Nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, furono cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

La sostituzione delle popolazioni allogene

Mi è capitato per le mani un opuscolo del ministro dei Lavori Pubblici dell’era fascista Giuseppe Cobolli Gigli. Figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol, classe 1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928 anche perché sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà. Questo signore, fu autore di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali Il fascismo e gli allogeni, (da «Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle popolazioni «allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da altre provincie del Regno. Tra l’altro volle tramandare ai posteri una canzoncina in voga fra gli squadristi di Pisino. Il paese sorge sul bordo di una voragine che – scrisse il Cobol-Cobolli – «la musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali dell’Istria». Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio, di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella Foiba. La canzoncina di Sua Eccelenza (testo dialettale e traduzione italiana a fronte) diceva:

A Pola xe l’Arena
la Foiba xe a Pisin:
che i buta zo in quel fondo
chi ga certo morbin.

(A Pola c’è l’Arena,
a Pisino c’è la Foiba:
in quell’abisso vien gettato
chi ha certi pruriti).

Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo. Purtroppo essi non rimasero allo stato di progetto e di canzoncine. Riportiamo qui, dal quotidiano triestino Il Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924.

«Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al lavoro “coatto”, in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica d’Albona. Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 – poi sono stato trasferito a Verteneglio – ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c’erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro. Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti. Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica d’Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finché vivrò (…). Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea – che da Trieste era diretta a Pisino e Pola – in un burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti. (…) Ho lavorato fra Santa Domenica d’Albona, Cherso, Verteneglio sino all’agosto del `43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti). L’accordo e l’amicizia era grande e l’aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la verità, che io posso testimoniare».

60mila slavi in fuga dall’Istria

Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio bellico 1940-43 fu la fuga dall’Istria di circa 60.000 persone. Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano fu ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò l’Italia ad aggredire i popoli jugoslavi. Quell’aggressione tra il 6 aprile 1941 e l’inizio di settembre 1943 fu caratterizzata dalle brutali annessioni di larghe fette di Croazia e Slovenia e da una lunga serie di crimini di guerra. Per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali si giunse alle scelte più draconiane dei comandi militari italiani. Ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza perpetrata a danno delle popolazioni».

Nelle regioni della Croazia annesse all’Italia dopo il 6 aprile `41 si ripetè quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo per la snazionalizzazione e l’assimilazione, provocando inevitabilmente l’ostilità delle popolazioni. Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non cruento dell’occupazione, fu recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell’8 settembre 1941 fu ordinato di «adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni straniere». Così località del profondo territorio interno lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar divennero: Belica= Riobianco, Bogovic = Bogovi, BruÜic = Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar = Concanera, Glavani = Testani, Jelenje = Cervi, Kacjak = Serpaio, Koziji Vrh= Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera Inferiore, Padovo = Padova, Pecine = Grottamare e via traducendo o inventando. Trinajstici, presso Castua, divenne Sassarino in onore della divisione «Sassari» che vi teneva un reparto.

Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non tolleravano l’italianizzazione né l’occupazione. In data 30 maggio 1942 il Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l’internamento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Ma non si limitò alle deportazioni. Con un manifesto si rendeva noto: «Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia». La rappresaglia continuò.

Il 4 giugno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Monte Chilovi (Kilovce), Rattecevo in Monte (Ratecevo). A Kilovce furono fucilate 24 persone.

Non c’è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati Territori Aggregati e/o Annessi a contatto con l’Istria e la regione del Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente raso al suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o più membri deportati oppure fucilati.

Centomila nei campi di concetramento

Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco: «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell’aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l’incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento». In particolare evidenzia che il numero dei condannati e confinati «slavi» della Venezia Giulia e dell’Istria fu particolarmente elevato, sicchè dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era costituita da civili sloveni e croati. Il numero totale dei civili internati dall’Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le «leggi eccezionali»; più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. I campi di concentramento nei quali furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi erano disseminati dall’Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Non si contano, poi, i campi «di transito e internamento» che funzionavano lungo tutta la costa dalmata, sulle isole di Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat). Quest’ ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi». In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 2.600 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. Il 15 dicembre 1942 l’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell’assoluta totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame». Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo». Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell’XI Corpo in cui si parlava di «briganti comunisti passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il trattamento dei sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!». Il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da testa per dente».

Furono circa 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti. Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell’Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento. Mi limiterò, per l’Istria ad alcuni episodi che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943.

Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi, San Matteo e Spincici; i loro beni, compreso il bestiame, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero fucilate.

I deportati in Italia, i villaggi rasi al suolo

Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnico, a nord di Fiume. Per ordine del prefetto Temistocle Testa, reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum all’alba del 13 luglio. Rastrellata l’intera popolazione, questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi incendiato. Oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame minuto furono portati via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie finirono nei campi di internamento italiani: più di cento maschi furono fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena.

Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò: «Ierisera tutto l’abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti militari dell’armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop».

Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette villaggi; furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono deportate e precisamente 842 uomini, 904 donne e 565 bambini; furono incendiate 503 case e 237 stalle. Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici “covi di ribelli”. Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici

Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un “Fronte nazionale antifascista” al Prefetto Giuseppe Cocuzza. Era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista. Nel documento, si fa una denuncia drammaticamente circostanziata delle vessazioni, arresti, devastazioni ed esecuzioni sommarie «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza di certe autorità». Nell’iniziativa era evidente, oltretutto, un «diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi indiscriminatamente sugli Italiani dell’Istria come reazione «alla tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave

2 – Istria 1943. La rivolta e le foibe

Dopo l’8 settembre, italiani e slavi si sollevarono spontaneamente. Tra caos, vendette e battaglie contro i tedeschi avanzanti, molti furono uccisi. Colpevoli e no

L’8 settembre 1943, alla notizia della capitolazione italiana, in Istria ci fu una generale e pressoché spontanea rivolta che coinvolse in ugual misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Nell’uno e nell’altro caso gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano mostrato la propria gioia per la «fine della guerra»; la rivolta si diresse contro i carabinieri, la polizia e soprattutto i gerarchi fascisti. In quell’ondata insurrezionale cedettero le armi circa 8.000 soldati italiani. A comprova della partecipazione degli italiani all’insurrezione stanno i fatti del 9 settembre a Pola dove, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, cui i lavoratori di varie fabbriche avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a Scoglio Olivi (un piccolo reparto preesistente all’armistizio) fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini; furono uccisi tre operai – Cicognani, Zachtila e Zuppini – e feriti un gran numero di altri. Le forze armate italiane presenti nella piazzaforte di Pola sarebbero state sufficienti per aver ragione non solo delle poche centinaia di tedeschi presenti in città da fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII Corpo d’Armata e dell’Ammiragliato avessero rispettato le clausole dell’armistizio e lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi, cui furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Il 12 settembre fu consegnata a un loro reparto di soli 300 uomini l’intera piazzaforte. Circa 15.000 uomini in uniforme e 400 detenuti – politici e comuni – che si trovavano nel carcere cittadino finirono nelle mani del nemico. Migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo rifiutato l’offerta di servire l’invasore, furono deportati in Germania ai lavori forzati. Solo una minoranza di militari, con in testa le Camicie nere, passò al servizio dei tedeschi.

La minaccia tedesca

La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la minaccia tedesca. Nella penisola stava scendendo un’intera divisione germanica. Così, in piena autonomia, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all’avanzata dei tedeschi – decisione presa anche sull’onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l’aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche aiutate da manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti in strada; altri venticinque, catturati, finirono impiccati agli alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città. Fu questo il primo grande eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall’esercito tedesco in Istria nel settembre-ottobre del `43.

Questi avvenimenti sanguinosi versarono benzina sul fuoco dell’insurrezione popolare istriana – nel corso della quale, contrariamente a quanto vorrebbero far credere i simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono migliaia di connazionali ai tedeschi, non fu torto un capello ai soldati italiani. Il patriota istriano Diego de Castro ha scritto che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell’Istria ad aiutare i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l’8 settembre. Il vescovo di Trieste dell’epoca, mons. Antonio Santin, testimoniò il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e poi in «Trieste 1943-1945», Udine 1963): «Migliaia e migliaia di questi carissimi fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono l’amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i casolari». A loro volta in «Fratelli nel sangue» (Fiume, 1964) Aldo Bressan e Luciano Giuricin, citano testimoni diretti di quei fatti, scrivendo: «La popolazione (…) porse ogni aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (…) che cercavano di raggiungere l’opposta sponda dell’Adriatico».

A Pisino nella notte fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione ferroviaria un treno carico di marinai italiani che i tedeschi stavano deportando in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circondato, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in direzione di Trieste e dell’Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni antifasciste istriane.

Guido Rumici scrive: «In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonarono caserme e installazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intraprendere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie». «Nel loro peregrinare, spesso a piedi, per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta». Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici episodi di «caccia al fascista», ai capi locali del regime.

Documenti partigiani del settembre-ottobre 1943 forniscono un quadro abbastanza realistico di quella che fu l’insurrezione istriana del settembre. Leggiamo: «La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in maniera improvvisata da parte di Comandi di posto arbitrariamente autodefinitisi tali e costituiti in tutta fretta in singole località. La popolazione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare».

Sull’onda dell’insurrezione generale e del vuoto di potere, alcuni esponenti croati giunti in Istria da oltre confine, fra cui Ivan Motika, oriundo di Gimino, laureato in giurisprudenza ed ex ufficiale dell’esercito regio jugoslavo, improvvisarono una specie di tribunale del popolo e costituirono una polizia politica segreta o Centro di Informazione, che diedero inizio a processi sommari contro i «nemici del popolo», fascisti o presunti tali. Luciano Giuricin scrive in proposito che il Motika «ebbe sicuramente un ruolo non secondario negli arresti, nelle carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane incalzate dall’offensiva tedesca di ottobre, che portò all’occupazione dell’intera Istria».

I tribunali del popolo

I cosiddetti tribunali del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di «giudici» che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si servivano di quei «tribunali» per sfogare bassi istinti di vendetta. In un rapporto dell’ottobre `43 firmato da Zvonko Babic, inviato in Istria dal Comitato centrale del Pc croato, si legge: «Nel periodo in cui abbiamo esercitato il potere in Istria (…) la lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera disuguale».

In molte località gli istriani si sono rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di posto riferivano nei loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte nonostante la cosa non fosse vera. Si è manifestata pure l’ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del popolo e l’assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso, con ritardo, si ritorce contro di noi». Il rapporto continua: «Il territorio più radicalmente ripulito (dai `nemici del popolo’, ndr) è quello di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicché i nemici del popolo sono stati puniti unicamente con la morte. Fra gli arrestati c’era pure un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in libertà».

Fra coloro che vennero catturati dagli insorti, consegnati ai tribunali del popolo e da questi condannati a morte e infoibati, vi furono una ventina di zelanti fascisti locali che avevano fatto da guida a due colonne tedesche che tra l’11 e il 13 settembre, muovendo da Pola e da Trieste avevano tentato di raggiungere Fiume, scontrandosi ripetutamente con reparti di insorti. In quegli scontri caddero più di cento patrioti istriani, in maggioranza italiani di Parenzo, Rovigno e Albona, ma anche diversi soldati italiani unitisi agli insorti.

In concomitanza con l’insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti di gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio, sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari Cpl. In questa operazione furono impegnati sia italiani che croati.

A Rovigno, cittadina abitata quasi esclusivamente da italiani, gli arresti dei «nemici del popolo» cominciarono alla fine della seconda settimana di settembre. Il mattino del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più partigiani italiani e croati che, insieme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L’indomani, con l’aiuto di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come «i più incalliti fascisti macchiatisi di crimini», colpevoli di avere «per decenni terrorizzato la popolazione della città». A giudicarli furono dei comunisti italiani, loro concittadini, che alla fine, il 17 settembre, trattennero 14 fascisti (tutti italiani, ex squadristi e confidenti dell’Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione del Tribunale militare.

Non solo comunisti

Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località dell’Istria. Non in tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano comunisti o antifascisti. «Tra questi partigiani dell’ ultima ora c’erano – in non pochi casi – quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all’8 settembre, personaggi che, armi alla mano, si erano autoproclamati capi partigiani». E prevalse la violenza.

Ubicazione delle foibe principali

Per quanto riguarda i militanti del Pci, essi poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio 1943 in tutta la Regione Giulia a firma dei comitati regionali dei partiti d’azione, comunista, liberale e socialista, nonché dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si chiedeva l’armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e «la punizione dei responsabili di vent’anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione». All’atto pratico, come rivelano i risultati di vari incontri avuti con i massimi esponenti degli insorti croati dagli esponenti istriani del Pci Pino Budicin, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri per la punizione dei fascisti; e nei fatti fu l’anarchia.

I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona, dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al Pc italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia, mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie per quanto possibile (tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate da personaggi estranei al locale Comando partigiano) nel Parentino, nel Pisinese e in quel di Gimino invece gli arresti oltre ad essere massicci furono pure indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da gerarchi fascisti locali che si erano meritati l’odio delle popolazioni, ma nel mucchio capitarono anche persone che oltre alla tessera del Pnf non avevano colpe da espiare – o con i quali i delatori avevano vecchi conti personali da regolare. La caccia al fascista cominciò verso la metà del mese. Ma appena il 24 settembre, di fronte a fenomeni di esecuzioni sommarie ed arbitrarie, segnalati dalle varie località dell’Istria al Comando partigiano costituitosi nel frattempo a Pisino, fu costituito un «Tribunale militare mobile» che avrebbe dovuto arginare o eliminare le illegalità. I processi si celebrarono a Pisino, ad Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni) degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri furono inviati a Pisino e rinchiusi nel castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti, oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone.

Ma quanti furono gli infoibati in Istria?

3 – Istria 1943: quanti morirono?

Dopo l’8 settembre le vittime dei partigiani jugoslavi furono tante: ma la vendetta nazifascista, oggi dimenticata, fu poi spaventosa. E spesso compiuta da chi oggi parla del «genocidio»

Numeri e morale. Dai bilanci tracciati dagli stessi fascisti, nel `43, gli «infoibati» con giustizia sommaria furono alcune centinaia (e non tutti erano italiani). I civili massacrati per vendetta dopo il ritorno dei nazifascisti furono molte migliaia. Falsificare queste cifre per riattizzare dopo 60 anni odî etnici è immorale. Italiani, sloveni e croati dovrebbero piuttosto riconoscere le reciproche colpe. E scusarsi

Nella relazione di un diplomatico dello «Stato indipendente croato» (quello degli ustascia) che seguì le truppe tedesche in Istria dopo il 4 ottobre `43, si legge: «I partigiani hanno ucciso circa 200 prigionieri fascisti, gettandone i corpi nelle foibe». A loro volta i tedeschi, dopo una dettagliata esplorazione di 52 tra foibe e cave di bauxite istriane, cominciata il 16 ottobre 1943 a Vines (Albona) e conclusasi nel gennaio 1945 con l’impiego dei vigili del fuoco di Pola, pubblicarono un elenco nominativo di 232 vittime. La stampa fascista repubblichina dell’epoca, riferendo un rapporto del Federale dei Fasci dell’Istria Luigi Bilucaglia, scrisse di 349 vittime degli «slavocomunisti», cifra successivamente portata a 419, comprendendo in essa anche persone date per scomparse. Lo storico triestino Galliano Fogar indica la cifra massima di 570 persone uccise, «in maggioranza italiani ma anche slavi», aggiungendo: «Fu una giustizia sommaria, sembra contro le direttive impartite, innescata dalle sofferenze e persecuzioni patite», «ma anche da vendette per rancori e contrasti paesani e dall’intervento, in quel confuso clima insurrezionale, di elementi criminali».

Cifre inventate

La pubblicistica neo e postfascista di oggi parla invece indiscriminatamente di vittime civili innocenti, massacrate solo perché italiani, inventando cifre che per la sola Istria vanno dai mille ai duemila morti. Un altro storico triestino, Roberto Spazzali, nel voluminoso libro «Foibe, dibattito ancora aperto» edito dalla Lega Nazionale di Trieste, ha onestamente riconosciuto che molti «storici» hanno puntato sul sensazionalismo, sull’effetto del numero che dovrebbe affermare il concetto dell’olocausto, ovvero del «martirio olocaustico» degli italiani in Istria. Sono state così proposte «versioni, cifre e giudizi mai verificati da dati oggettivi» nell’intento di produrre «una moltiplicazione emotiva ed anche politica» delle vittime, presentando un quadro «macroscopicamente lontano dalla realtà».

La falsificazione delle cifre è un immorale gioco di sciacallaggio politico; basterebbe il sacrificio anche di pochi innocenti per indurci a denunciare il crimine commesso. E gli innocenti, tra gli infoibati istriani, ci furono. Furono parecchie le vittime di vendette personali, compiute da criminali comuni – come il malfamato Matteo Stemberga di Albona, che sterminò perfino alcuni suoi parenti. Alcuni individui, che avevano indossato la camicia nera o la divisa di carabiniere fino a qualche mese prima, per riscattarsi del proprio passato, si trasfomarono dalla sera al mattino in «partigiani», zelanti cacciatori di teste.

Non tutte le vittime, però, furono «civili innocenti». Ricordiamo che furono le stesse autorità fasciste istriane, civili e militari dell’epoca a indicare molti degli infoibati come «militi della Mvsn» o appartenenti a organizzazioni sociali del Partito fascista. In un documento della Prefettura repubblicana di Pola si parla esplicitamente di «nostri disgraziati squadristi». L’etichetta di fascisti, squadristi ecc. venne data alla maggior parte delle vittime anche dai giornali repubblichini dell’epoca, in occasione della riesumazione delle salme e dei funerali. Il Corriere Istriano di Pola e Il Piccolo di Trieste mettevano in risalto nei loro necrologi, accanto a nomi e cognomi, le cariche di podestà, segretario del Fascio ed altro, insieme a gradi e titoli vari. Oggi, accanto a quei nomi, figurano solo professioni e mestieri, da ingegnere ad agricoltore, con l’aggiunta stereotipa di «vittime della barbarie comunista slava». Viene ripetuta una terminologia usata dai fascisti al servizio dei nazisti dall’ottobre 1943 alla fine di aprile 1945, quando furono pubblicati opuscoli e libelli che incitavano alla distruzione di quei «barbari», degli «aguzzini rossi», delle «bestiali orde di Stalin». Le parole furono accompagnate dai fatti, come presto diremo.

Un’altra tesi degli «storici» neo e postfascisti è quella del genocidio degli italiani.

Non solo italiani

È fuori dubbio invece che non tutti gli infoibati erano italiani, così come non pochi fascisti locali erano «italianissimi croati» con cognomi slavi italianizzati. Fra questi ci furono fascisti colpevoli solo di esser stati esattori delle imposte, guardie comunali e forestali, segretari comunali, o possidenti terrieri: ma ci furono anche agenti e confidenti dell’Ovra.

I fascisti superstiti si vendicarono largamente denunciando ai tedeschi non centinaia ma migliaia di cosiddetti «slavocomunisti» e loro familiari. Chi oggi, invoca giustizia per le vittime della cosiddetta «barbarie slavocomunista», mescolando insieme innocenti e criminali, dimentica che già sessanta anni or sono, proprio in nome degli infoibati, fascisti e nazisti eseguirono una colossale vendetta mettendo l’Istria intera a ferro e fuoco, al punto da suscitare lo sgomento e l’aperta denuncia delle autorità ecclesiastiche, con alla testa l’arcivescovo di Trieste e Capodistria, mons. Santin. Il 4 marzo 1944 sul giornale Vita Nuova, organo di quella diocesi, furono denunciate le «truculenti espressioni della barbarie umana» e «le arbitrarie violenze contro uomini e cose» quotidianamente commesse dai nazifascisti con incendi di paesi, deportazioni, esecuzioni sommarie.

Sarebbe lungo riportare tutti gli eccidi compiuti dai fascisti istriani dopo l’arrivo dei tedeschi – e dagli stessi tedeschi, che nei fascisti locali trovarono ottime spie e guide per le loro sanguinose spedizioni. Basti citare il bollettino germanico che già il 7 ottobre `43 faceva un primo bilancio dell’occupazione della penisola e della repressione, informando: «Sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati, fra questi gruppi di ufficiali e soldati badogliani», dunque italiani. Otto di essi, marinai, vennero fucilati nei pressi di Gimino; i loro corpi, lasciati insepolti, furono tumulati dai contadini, molto più tardi, in una cava di bauxite (e conteggiati fra gli infoibati). Il 23 ottobre il bollettino tedesco parlava di 13.000 banditi uccisi o fatti prigionieri. Erano tutti civili, come poi le centinaia e migliaia che sarebbero stati massacrati nei mesi seguenti in tutta la regione. Sempre, a indicare i villaggi da rastrellare e le persone da uccidere furono i fascisti italiani, zelanti servitori dei nazisti.

Collaborazionisti in prima linea

Oggi quei collaboratori che aiutarono i nazisti a mettere l’Istria a ferro e fuoco, sono in prima linea nel denunciare i «crimini dei comunisti slavi dell’Istria» e nel coprire, tacere o trasformare in pagine di patriottismo italico il loro coinvolgimento nelle stragi compiute dopo la pagina nera delle foibe. Uno di questi, in veste di storico, fecondo compilatore di libelli, è Luigi Papo da Montona, ex comandante della Milizia repubblichina del 2° reggimento «Istria» sotto il comando delle Ss, che effettuò feroci e ripetuti rastrellamenti nella penisola, come si ricava dagli encomi rivoltigli dal foglio Corriere Istriano di Pola, nel novembre 1943, per aver fondato il fascio e la «Squadra d’azione» di Montona e per le successive operazioni contro i «banditi» partigiani. Ne fu richiesta l’estradizione dalle autorità jugoslave per crimini di guerra, ma a suo favore si adoperò l’on. Scelba, allora ministro dell’interno, facendo archiviare la richiesta.

La tesi ricorrente degli storici di matrice fascista è che l’esodo delle popolazioni istriana, fiumana e dalmata – avvenuto nel decennio 1945-1954 e in seguito, sia diretta conseguenza delle foibe. Sul quotidiano Il Piccolo di Trieste (16 febbraio 2003) si poteva leggere una lettera alla redazione di tale Alesandro Perini, esule da Capodistria. In essa scrisse: «Non si deve dimenticare mai (…) che il fascismo di Mussolini, che ha dichiarato guerra a mezzo mondo, paesi balcanici compresi, ritrovandosi alla fine del conflitto senza l’Istria, senza mezzo Isontino e con un debito economico e morale incalcolabile (…) è l’unico responsabile dell’Esodo. Esatto. Con la precisazione che l’Italia di Mussolini non dichiarò guerra ai paesi balcanici, Grecia e Jugoslavia, ma li aggredì e li invase senza dichiarazione di guerra, occupandoli, seminando in quelle terre stragi e distruzioni immani, coprendo l’Italia di vergogna. Ciononostante, nessuno dei numerosi statisti italiani che si sono avvicendati al vertice del governo e dello stato dopo la caduta del fascismo – nessuno, ripeto – ha ritenuto finora necessario chiedere scusa e perdono alle vittime di quell’aggressione e di quella occupazione, ai figli e nipoti di centinaia di migliaia di massacrati. Si dimenticano pure i circa 5.000 uomini e donne, vecchi e bambini istriani trucidati dai tedeschi e dai militi del fascio repubblicano che terrorizzarono quella penisola, portando inoltre alla deportazione di altri 15 mila istriani nel periodo fra ottobre `43 e fine di aprile 1945.Chi è accecato dall’odio antislavo dimentica perfino l’aiuto che le popolazioni croate e slovene dell’Istria fornirono in tutti i modi alle migliaia di soldati italiani sbandati che, arrivando dalla Balcania, cercavano di raggiungere attraverso l’Istria e Trieste le loro case lontane.

Decenni di confusione

Questo vuole essere un contributo alla chiarificazione, contro la confusione seminata per decenni da chi ha cercato di strumentalizzare le foibe da una parte, e contro la rimozione di una memoria dolorosa dall’altra. Come direbbero gli storici triestini Raoul Pupo e Roberto Spazzali, bisogna che cessi una volta per sempre la messa in circolazione di «criteri di lettura di quella stagione di sangue tutti interni ai risentimenti, alle accuse e alle ripulse, come se mezzo secolo fosse passato invano».

Da parte slovena e croata non si può continuare a negare i crimini compiuti contro gli italiani e gli stessi slavi dell’Istria da singoli esponenti della rivolta istriana del settembre; non si può negare la tragedia delle foibe, frutto anche di revanscismo; ma da parte italiana non si deve negare la sanguinosa storia scritta in quelle terre dal fascismo italiano prima e dal collaborazionismo fascista al servizio dei tedeschi dopo l’8 settembre 1943. La nostra memoria deve portare sì la dolorosa tragedia delle foibe, vista nella sua esatta cornice storica; ma anche gli orrori del fascismo devono essere parte di questa memoria. Guai a coltivare la visione manichea – oggi predominante negli scritti degli «storici» revisionisti – secondo cui gli italiani furono tutti e sempre buoni, con rare eccezioni, mentre gli slavi sono stati tutti e sempre cattivi, con rare eccezioni; non è vero che i fascisti combatterono in Istria, prima e dopo l’8 settembre, per una causa patriottica e giusta, mentre i partigiani sarebbero stati degli scellerati usurpatori.

Tesi assurde

Una volta per tutte – infine – va sottolineata l’assurdità delle tesi del «genocidio» che gli slavi in Istria avrebbero compiuto sugli italiani. Il tragico destino dei disgraziati che trovarono atroce morte nelle foibe non può essere usato dopo 60 anni per istigare passioni ed odio interetnico, per spezzare legami di amicizia che abbiamo saputo far rivivere nonostante l’odio che i vetero e neofascisti continuano a seminare. Nessuno di noi, oggi, può e vuole negare l’esistenza di vittime della jacquerie rivoluzionaria istriana della seconda metà di settembre 1943, né si può negare che nello stesso Partito comunista croato l’internazionalismo proletario fu inquinato da nazionalismi deleteri che si manifestarono soprattutto in Istria con l’invio nella penisola, quali emissari del Movimento di liberazione croato di ex fuoriusciti comunisti e nazionalisti (narodnjaci); non si può però neppure dimenticare che fra quelle vittime c’erano coloro che prima erano stati carnefici.

Occorre perciò reciproco perdono, lo sforzo di operare in futuro per la reciproca riconciliazione. Il buon nome dell’Italia non si difende esaltando i fascisti e ignorando i crimini del fascismo, così come per un futuro di pace va permesso che i figli delle vittime innocenti delle foibe possano deporre un fiore sui luoghi del sacrificio dei loro padri. Per quel che può valere, propongo che i presidenti di Slovenia e Croazia depongano corone ai margini delle foibe di Basovizza presso Trieste e di Vines in Istria, e che il presidente italiano si rechi sul luogo dell’eccidio di Pothum presso Fiume o nel cimitero di Kampor sull’isola di Arbe per onorare le vittime innocenti della barbarie fascista italiana. Si onorino i figli martiri dei tre popoli confinanti che dai loro sepolcri invocano un avvenire di convivenza, di collaborazione e di pace. La pace può scaturire unicamente, come direbbe il poeta fiumano Alessandro Damiani, dalla condanna di «atti / a misura delle bestialità umana, / cui ideologie e fedi offrono / sempre miserrima copertura».

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Campo di internamento

Uno dei miti più duri a morire è quello degli “Italiani brava gente”. Con questa formula abbiamo sempre cercato di autoassolverci, di cancellare le nostre tante colpe nella Seconda guerra mondiale e durante il nostro colonialismo.

Un clima di revisionismo e negazionismo che tende a occultare le colpe del fascimo, di Mussolini e della monarchia, quasi come fossimo stati costretti ad allearci con i tedeschi e fossimo andati in Africa con l’intenzione di civilizzarla. E invece vennero usati – anche da parte nostra – gas, deportazioni, campi di concentramento. Uno dei frutti di questa visione del mondo e della storia lo vedremo oggi, nel giorno della memoria per le vittime delle foibe. Fiumi di retorica e di inchiostro si spenderanno per commemorare le vittime, mentre un “pietoso velo” (per noi, non certo per i deportati e uccisi) verrà steso per dimenticare le tante nefandezze compiute dalle forze armate italiane di occupazione in Jugoslavia.

(altro…)

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Articolo di Slavoj Žižek tratto dal sito Le parole e le cose. Letteratura e realtà dove è stato pubblicato il 12 gennaio. Il testo originale è stato pubblicato su The New Statesman il 10 gennaio col titolo “Are the worst really full of passionate intensity?”.

Riflettere

Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.

Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberaloccidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.

Ecco perché trovo insufficienti i richiami alla moderazione sulla falsariga dell’appello di Simon Jenkins («The Guardian», 7 gennaio), secondo il quale il nostro compito è quello di «non reagire eccessivamente, di non pubblicizzare eccessivamente le conseguenze dell’accaduto. È invece quello di trattare ogni evento come un episodio di orrore passeggero». L’attacco a Charlie Hebdo non è stato un mero «episodio di orrore passeggero»: seguiva un preciso piano religioso e politico e, come tale, era parte di uno schema molto più ampio. Certo: non dobbiamo reagire eccessivamente se per questo si intende soccombere a una cieca islamofobia – dovremmo però analizzare questo piano in modo spregiudicato.

Non abbiamo bisogno di demonizzare i terroristi trasformandoli in fanatici eroi suicidi, ma di sfatare questo mito demoniaco. Molto tempo fa, Friedrich Nietzsche comprese che la cultura occidentale stava andando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica senza grandi passioni o impegni. Incapace di sognare e stanco della vita, l’Ultimo Uomo non prende rischi; cerca solo comfort e sicurezza, tolleranza verso gli altri: «Un piccolo veleno di tanto in tanto: è quello che ci vuole per fare sogni piacevoli. E più veleno alla fine, per una morte piacevole. Hanno i loro piccoli piaceri diurni e i loro piccoli piaceri notturni, ma hanno riguardo per la propria salute. ‘Abbiamo scoperto la felicità’ – dicono gli Ultimi Uomini, e strizzano l’occhio». Può in effetti sembrare che lo iato tra il Primo Mondo permissivo e la reazione fondamentalista corra sempre di più lungo la linea divisoria fra chi conduce una vita lunga, soddisfacente e piena di ricchezza materiale e culturale, e chi invece dedica la propria esistenza a una qualche Causa trascendente. Non è forse questa l’antitesi fra ciò che Nietzsche chiama nichilismo «passivo» e «attivo»? Noi in Occidente siamo gli Ultimi Uomini nietzschiani, immersi in stupidi piaceri quotidiani, mentre i musulmani radicali sono pronti a rischiare tutto, impegnati nella lotta fino all’autodistruzione. La seconda venuta di William Butler Yeats sembra rendere a pieno la nostra situazione attuale: «I migliori sono privi di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità». È un’eccellente descrizione della frattura tra i liberali anemici e i fondamentalisti appassionati: “i migliori” non hanno più la capacità di impegnarsi interamente; “i peggiori” si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.

Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono veramente a questa descrizione? Ciò di cui sono privi è un tratto che si ritrova facilmente in tutti i fondamentalisti veri, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso lo stile di vita dei non-credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi davvero credessero di aver trovato la loro via per la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non-credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, a malapena lo condanna: si limita a notare con benevolenza che la ricerca di felicità dell’edonista si sconfigge da sola. A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattano in realtà la loro stessa tentazione.

È qui che la diagnosi di Yeats non è all’altezza della situazione attuale: l’intensità passionale dei terroristi testimonia una mancanza di vera convinzione. Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano se si sente minacciata da una stupida caricatura in un settimanale di satira? Il terrore fondamentalista non si fonda sulla certezza della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare l’identità religiosa e culturale dall’assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che noi li consideriamo inferiori, ma che loro stessi si sentono segretamente tali. Ecco perché le nostre rassicurazioni condiscendenti e politicamente corrette li rendono solo più furiosi, e nutrono il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo di preservare la propria identità), ma praticamente l’opposto: i fondamentalisti sono già come noi; segretamente hanno già introiettato i nostri parametri, alla luce dei quali misurano se stessi.

Paradossalmente, quello che manca ai fondamentalisti è proprio una dose di vera convinzione ‘razzista’: la certezza della propria superiorità. Le recenti vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Benjamin per cui «ogni ascesa del fascismo reca testimonianza di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al tempo stesso è la prova che c’era un potenziale rivoluzionario, il malcontento, che la sinistra non è stata capace di mobilitare. La stessa cosa vale per il cosiddetto ‘fascismo islamico’ di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è il correlativo esatto della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Talebani conquistarono la valle dello Swat in Pakistan, il «New York Times» scrisse che avevano organizzato «una rivolta di classe che sfrutta divisioni profonde fra un piccolo gruppo di latifondisti ricchi e i loro affittuari senza terra». Se, «approfittando delle condizioni difficili dei contadini», i Talebani stavano «sollevando l’allarme sulle condizioni sociali del Pakistan, che rimane largamente feudale», che cosa impedisce ai democratici liberal in Pakistan, così come negli Stati Uniti, di approfittare allo stesso modo di questa situazione e provare ad aiutare i contadini senza terra? La triste conseguenza di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «alleate naturali» della democrazia liberale…

Che dire dei valori fondamentali del liberalismo: la libertà, l’uguaglianza, eccetera? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte per proteggerli dall’attacco fondamentalista. Il fondamentalismo è una reazione (una reazione falsa, mistificante, com’è ovvio) a un difetto vero del liberalismo, e per questo viene generato di continuo dal liberalismo. Lasciato a se stesso, il liberalismo si indebolirà lentamente da solo: la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è una sinistra rinnovata. Per far sopravvivere la sua eredità-chiave, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È questo l’unico modo per sconfiggere il fondamentalismo, per togliergli il terreno da sotto i piedi.

Pensare in risposta agli assassinii di Parigi significa abbandonare la soddisfazione autocompiaciuta del permissivismo liberale e accettare che il conflitto fra il permissivismo liberale e il fondamentalismo è, in ultima analisi, un falso conflitto – un circolo vizioso fra due poli che si generano e si presuppongono l’uno con l’altro. Ciò che Max Horkheimer disse del fascismo e del capitalismo negli anni Trenta – quelli che non vogliono parlare in modo critico del capitalismo dovrebbero tacere anche sul fascismo – dovrebbe essere applicato anche al fondamentalismo di oggi: quelli che non vogliono parlare in modo critico della democrazia liberale dovrebbero tacere anche sul fondamentalismo religioso.

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Stefano Cardini, Scenari, 12 dicembre 2014

È probabilmente un caso. Colpisce, tuttavia, che mentre in molti Paesi europei cresce il consenso attorno a formazioni politiche nazionaliste e xenofobe, mentre l’antisemitismo torna a colpire centri di cultura ebraici e sinagoghe e, lungo il confine che un secolo fa vide la dissoluzione dei tre grandi Imperi centrali euroasiatici, gruppi paramilitari neonazisti presidiano sia le piazze “antieuropeiste” della Grecia sia quelle “europeiste” dell’Ucraina, si assista a un riaccendersi dell’interesse e del dibattito attorno alle filosofie “nere” del Novecento: da Oswald Spengler, a Ernst Jünger, a Carl Schmitt fino a Martin Heidegger. Parlo di filosofie “nere” e credo di poterlo fare con qualche buona ragione. Nonostante questi Autori abbiano goduto dell’interesse e dell’apprezzamento anche di ambienti culturali e intellettuali liberaldemocratici, socialdemocratici e financo marxisti, essi sono sempre tradizionalmente appartenuti a un ideale Olimpo di destra, anche estrema, intrecciando generalmente nelle loro opere motivi antimoderni, antiliberali, antidemocratici e, non di rado, nazionalisti, razzisti e antisemiti. Al centro dello Streit è finito di recente ed una volta di più Martin Heidegger, in seguito alla pubblicazione in Germania, lo scorso marzo, dei Quaderni neri (Schwarze Hefte), attualmente in traduzione anche in Italia da Bompiani. In questa sorta di “zibaldone” heideggeriano, come ha scritto Donatella Di Cesare nel suo recente volume Heidegger e gli ebrei (Bollati-Boringhieri) vi sarebbe «quel non-detto che molti supponevano, o speravano, fosse anche non-pensato», ovvero, l’antisemitismo di Heidegger: un antisemitismo meditato proprio nel quadro filosofico del pensiero della storia dell’Essere. Non avendo ancora studiato gli Schwarze Hefte non entro nel merito più che tanto su una questione che, dalla Frankfurter Allgemeine a Le Monde al New York Times, ha suscitato un così grande dibattito. Mi limiterò a riassumere per sommi capi i termini della contesa. E a esprimere una sorta di auspicio.

Il caso Heidegger non è nuovo, naturalmente. Semplificando molto, negli anni abbiamo assistito al fronteggiarsi di due atteggiamenti estremi di fondo. Il primo riguarda quelli che chiamerò i minimizzatori, ovvero, quanti sostanzialmente non rilevando nell’opera più nota ed edita di Heidegger significativi elementi a suffragio della sua adesione al nazismo, salvo forse un motivo “attualistico” rinvenibile nella sua concezione dell’esistere autentico come Essere-per-la-morte, hanno teso a confinare quell’accadimento a episodio biografico, frutto o di piccine ambizioni accademiche o dell’insipienza politica del filosofo, la cui luna di miele con il regime, d’altronde, non sarebbe durata che qualche anno. Il partito opposto, invece, che chiamerò dei liquidatori, ha sempre teso a rintracciare e a enfatizzare il ruolo che la riflessione di Heidegger avrebbe svolto nel gettare le premesse della sua decisione politica, in particolare in forza di una aperta, marcata ed esibita svalutazione di ogni forma fondata di conoscenza morale, in favore dell’idea di una comunità di destino basata su un rinnovato radicamento del popolo tedesco nella terra e nel sangue sotto la guida di Adolf Hitler. Le difficoltà più rilevanti i minimizzatori le incontravano quando erano chiamati a giustificare non soltanto appunti o corrispondenze, di natura privata o accademica che tradivano, oltreché l’iniziale, entusiastica adesione al regime, anche una chiara avversione verso gli ebrei, ma soprattutto il silenzio degli anni seguenti, privi di un serio ripensamento da parte del filosofo. Per i liquidatori, invece, risultò sempre difficile dar conto non soltanto dell’innumerevole schiera di allievi ebrei di Heidegger, legati al maestro benché costretti dalle leggi razziali a lasciare la Germania, ma della stima e dell’amicizia che molti di loro continuarono negli anni a tributargli, da Hannah Arendt, che a Heidegger fu legata anche sentimentalmente, a Karl Löwith, che ritenne sempre Heidegger alieno, per esempio, da ogni forma di antisemitismo.

Tra questi estremi, si possono trovare una molteplicità di chiavi interpretative intermedie.

Ora, per quanto posso dire di avere letto sinora, mi pare difficile che la lettura degli Schwarze Hefte lasci semplicemente inalterati i termini del problema. Al riguardo si possono citare, riprendendoli per esempio dal libro di Di Cesare, passi heideggeriani di questo tenore: «La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum] non è una questione razziale [rassisch], bensì la questione metafisica [metaphysisch] su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo». L’impressione, insomma, è che minimizzare il nazismo di Heidegger e ancor più il suo antisemitismo come estrinseci alla sua vicenda intellettuale sia ormai definitivamente insostenibile. Sarebbe tuttavia un gravissimo errore, e qui inizia il mio auspicio, se questo significasse “chiudere i conti” con Heidegger, quasi che compito della filosofia fosse compilare liste di proscrizione e non, anzitutto, comprendere le cose, a partire dai filosofi e dalle loro filosofie. Provo a spiegarmi meglio. Uno dei meriti del libro di Di Cesare, al di là della tesi che tende a fare dell’antisemitismo di Heidegger un componente centrale non solo delle sue scelte politiche, ma della sua stessa filosofia, è mostrare i passaggi di fase che nel corso della storia del pensiero filosofico quella che oggi chiamiamo “questione ebraica” ha assunto, non soltanto in Germania, anche se in modo particolare in Germania: da Lutero, a Kant, a Fichte, a Hegel, a Nietzsche, a Frege. Si tratta di una ricognizione storica e teorica che risponde alla “voglia di capire” prima che alla preoccupazione di giudicare, non perché non si giudichi o non si sia già giudicata moralmente la condotta di Heidegger o di altri, ma perché si ritiene che per ben giudicare si debba anzitutto ben capire e che ancora qualcosa da capire, nonostante tutto, ci sia. Il nazismo e l’antisemitismo di Heidegger, probabilmente non più contestabili o minimizzabili, non possono infatti essere semplicemente dedotti dalla sua “critica” al primato fenomenologico husserliano della soggettività trascendentale in favore di una “fondazione” ontologica più radicale. A partire di lì, infatti, molte altre strade sarebbero state percorribili. Eppure non lo furono. Perché? E perché fu invece imboccata e mai davvero ridiscussa (non “rinnegata”, giacché rinnegare sarebbe stato facile e tanti l’hanno fatto a buon mercato) una strada che oggi appare a noi tutti sconcertante, in particolare per un pensatore che dell’ebreo Husserl fu allievo e della ebrea Hannah Arendt maestro. La questione va ben oltre la vicenda biografica del filosofo di Messkirch, oltre le sue megalomanie, meschinità accademiche, velleità politiche, oltre i suoi provincialissimi pregiudizi e le sue banalità intellettuali, che pure ci furono. C’è stato un terreno, infatti, in quel torno d’anni a cavallo della prima guerra mondiale e oltre, in cui la modernità ha raggiunto il punto suo più alto di fiducia in se stessa per poi precipitare ben due volte nell’abisso, sul quale sono variamente fiorite (e naufragate) le “titaniche” imprese intellettuali – titaniche a volte fino al ridicolo – non soltanto di Heidegger, ma di Spengler, Jünger, Schmitt e molti altri. Esplorarne in profondità le ragioni è allora necessario. A partire da una notazione importante, messa in luce da Di Cesare. Che uno dei passaggi critici del rapporto tra pensiero filosofico ed ebraismo, ha riguardato in realtà l’epoca della storia d’Europa più trionfalmente moderna, razionalista e progressiva, l’Illuminismo, il cui sorgente ethos, impegnato a districarsi ed emanciparsi idealmente e realmente da ogni forma di tutela religiosa, ha incontrato non poche difficoltà nel ricavare uno spazio di legittimità civile e politica a quell’enigmatico e sempre sospetto impasto di teologia e politica, religione e sentimento nazionale che era l’ebraismo. Nacque così la famosa “questione ebraica”. Nacque sotto i Lumi della ragione, non sempre così sereni, come anche Heidegger, Spengler, Jünger, Schmitt e, prima di loro Nietzsche, in radice sostenevano.

Perché tutto questo ci riguarda? Perché non è materia soltanto di filologi, storici della filosofia, critici oziosi del pensiero? Forse perché l’Europa, che sotto i migliori auspici ha cercato di ripensare se stessa unita dopo la catastrofe bellicista innescata dalle spinte egemoniche regressive del Terzo Reich, oggi pare avere perso ogni fiducia in una propria koiné. E con la stessa disinvoltura con cui, un Paese dopo l’altro, fa a gara per riconoscere lo Stato palestinese, l’Europa si astiene dal pronunciarsi, sotto lo sguardo dell’ingombrante alleato americano, su una risoluzione russa proposta alle Nazioni Unite che condanna qualunque glorificazione di fascismo e nazismo e ogni forma di xenofobia e razzismo. Non è solamente, io credo, questione di un modello di economia sociale di mercato da superare o all’opposto da difendere o rilanciare. E neppure è solamente questione di un ruolo geopolitico smarrito nelle nebbie di un ipocrita soft power dopo una guerra, la Seconda, dalla quale in fondo a uscire vincitori furono americani e russi. È anche questione di un’incapacità di raccogliersi attorno a un’idea di Europa, che oltre che vagheggiata nei siderei spazi degli auspici e delle raccomandazioni filosofiche, abbia e sappia mettere radici nella propria storia, facendo criticamente memoria di quell’immane sconcerto, di quello sgomento, di quello smarrimento di fronte al travolgente avanzare del “moderno” da cui presero le mosse anche certe titaniche imprese filosofiche dagli esiti catastrofici. Non dovremmo, quindi, proprio ora, “liberarci” di Martin Heidegger. Così come non dovremmo “liberarci” di Spengler, Jünger, Sombart, Schmitt ecc. Non dovremmo per non rischiare di divenire incapaci di cogliere con la indispensabile profondità teorica e storica il senso di parole come Europa, Asia, Russia, Occidente, Oriente, valori europei, cristiani, occidentali, diritto di cittadinanza, diritto d’asilo, diritto internazionale, polizia internazionale, guerra totale, guerra di distruzione, guerra di sterminio, sradicamento, disumanizzazione, mercificazione, ecc. Termini, tutti, che ricorrono in modo quasi automatico nel dibattito pubblico, ma senza che se ne riesca a riflettere il significato ancora vivo, se c’è, per noi. La pubblicazione dei Quaderni neri, quindi, sarebbe auspicabile non dovesse servire a “chiudere” la questione Heidegger. Bensì a farci riaprire con più onestà, rigore e consapevolezza storica la questione Europa: della sua identità, dei suoi valori fondativi, ovvero, dei suoi limiti, oltreché geografici, ideali. In un recente libro dedicato alla Russia come frontiera dell’Europa, Vittorio Strada ha scritto: «L’Europa, al di là di banali eurocentrismi e antieurocentrismi, più che spazio è Tempo: Modernità». Da questo punto di vista, essa sembrerebbe non avere confini, proprio come la nazione “infelice” della diaspora ebraica che, guarda caso, proprio i padri del moderno ritennero un enigma, un inciampo da rimuovere. Lo spazio, tuttavia, reclama sempre, a un certo punto, le sue ragioni. E lungo la frontiera che a oriente da sempre separa e collega la penisola europea al tavoliere asiatico, lì dove storia e geografia si confondono, un limite ancora si rivela e ribolle. Come ribolle a sud, verso quel mondo islamico che, nonostante i suoi straordinari apporti, non è Europa. Sono limiti di reciproche identità, tra emulazioni e risentimenti. Ma che non sappiamo pensare. Forse dovremmo provarci.

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30 giugno

I manifestanti rovesciano una camionetta delle forze dell’ordine. Piazza de Ferrari, 30 giugno 1960

Testo di ANONIMO

Fascisti e missini
con a capo Michelini
appoggiati da Tambroni
facevan da padroni.

E poi poi poi
ci chiamavano teddy boy
e poi poi poi
ci chiamavano teddy boy.

Teatro Margherita
volean fare il congressone
ma c’erano i genovesi
armati di bastone.

E poi poi poi…

Marescialli e tenentini
coi loro galoppini
volevano proteggere
gli eredi di Mussolini.

E poi poi poi…

Le strade e le traverse
tutte erano sbarrate
per proteggere i fascisti
e le loro buffonate.

E poi poi poi…

Con estrema decisione
entravano in azione
credevano di darci
una salutar lezione.

E poi poi poi
gliel’abbiamo data noi
e poi poi poi
gliel’abbiamo data noi.

Facevan caroselli
lanciando candelotti
ma noi a pietronate
li abbiamo mal ridotti.

E poi poi poi…

E piazza De Ferrari
in un attimo fu, presa
fascisti e celerini
ci chiesero la resa.

E poi poi poi…

Il trenta giugno è un giorno
che passerà alla storia
perché la Resistenza
coperta s’è di gloria.

E poi poi poi…

Guardatevi o padroni
dal premere i talloni
che torneremo un giorno
a prendere i bastoni.

E poi poi poi
ci direte teddy boy
e poi poi poi
ci direte teddy boy.

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In diversi paesi e con forme differenti, stiamo assistendo a un rigurgito del fascismo e del nazionalismo estremista.

Nel 1921, pochi mesi dopo la fondazione del Partito Comunista d’Italia (Livorno, 21 gennaio 1921), nel pieno di quell’avanzata del fascismo di Mussolini che lo avrebbe portato al potere il 28 ottobre dell’anno successivo, Gramsci scriveva questo articolo, tracciando una lucidissima analisi della situazione italiana dell’epoca.

Non posso esimermi dal trovare alcune analogie con la situazione presente. E non mi riferisco, come fanno molti altri su svariati media, al Movimento 5 stelle. Ciò che mi preoccupa di più è la situazione di debolezza delle nostre istituzioni, da anni sotto tiro incrociato da parte di forze e interessi i più disparati, che ne stanno minando il senso profondo, fino allo stravolgimento del dettato costituzionale nato dalla Resistenza.

In una intervista col corrispondente del Temps l’on. Giolitti ha solennemente dichiarato di volere ad ogni costo che l’ordine sia ristabilito. Soon stati convocati dal governo il generale dei carabinieri, il comandante delle regie guardie, il capo di stato maggiore e tutti i comandanti di corpo d’armata: si è discusso, si provvederà. Con quali mezzi? Entro quali limiti? È possibile che il governo, anche volendo, possa provvedere? Alle circolari e alle convocazioni del governo si accompagnano gli ordini, i richiami, le scomuniche delle autorità fasciste, anch’esse seriamente preoccupate della piega che assumono gli avvenimenti e degli immancabili colpi di ritorno: ma anche queste autorità, quantunque molto «rispettate e temute», non pare riescano a ottenere molta ubbidienza dai ranghi e dalle file dei loro gregari. Come non esiste uno Stato politico, come non esiste più coesione morale e disciplinare negli organismi e tra gli individui che che costituiscono la macchina statale,così non esiste una coesione e una disciplina neppure nell’«organizzazione» fascista, nello Stato ufficioso che dispone a suo buon piacere oggi della vita e dei beni della nazione italiana. È divenuto ormai evidente che il fascismo non può essere che parzialmente assunto come fenomeno di classe, come movimento di forze politiche consapevoli di un fine reale: esso ha dilagato, ha rotto ogni possibile quadro organizzativo, è superiore alle volontà e ai propositi di ogni Comitato centrale o regionale, è divenuto uno scatenamento di forze elementari irrefrenabili nel sistema borghese di governo economico e politico: il fascismo è il nome della profonda decomposizione della società italiana, che non poteva non accompagnarsi alla profonda decomposizione dello Stato e oggi può essere spiegato solo con riferimento al basso livello di civiltà che la nazione italiana aveva potuto raggiungere in questi sessanta anni di amministrazione unitaria.

Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato. Per comprendere tutto il significato di queste affermazioni basta ricordare: che l’Italia aveva il primato per gli omicidi e per gli eccidi; che l’Italia è il paese dove le madri educano i figlioletti a colpi di zoccolo sulla testa, è il paese dove le generazioni giovani sono meno rispettate e protette; che in alcune regioni italiane sembrava naturale, fino a qualche anno fa, mettere la museruola ai vendemmiatori perché non mangiassero l’uva; che in alcune regioni i proprietari chiudevano a chiave nelle stalle i loro dipendenti al ritorno dal lavoro, per impedire le riunioni e la frequentazione delle scuole serali.

La lotta di classe ha sempre assunto in Italia un carattere asprissimo per questa immaturità «umana» di alcuni strati della popolazione. La crudeltà e l’assenza di simpatia sono due caratteristiche peculiari del popolo italiano, che passa dal sentimento fanciullesco alla ferocia più brutale e sanguinaria, dall’ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui. Su questo terreno semibarbarico, che lo Stato ancora gracile e incerto nelle sue articolazioni più vitali a stento riusciva lentamente a dissodare, pullulano oggi, dopo la decomposizione dello Stato, tutti i miasmi. C’è molto di vero nell’affermazione dei giornali fascisti che non tutti quelli che si chiamano fascisti e operano in nome dei fasci appartengono all’organizzazione: ma che dire di una organizzazione il cui simbolo può venire usato per coprire azioni della natura di quelle che quotidianamente insozzano l’Italia? L’affermazione d’altronde dà agli avvenimenti un carattere ben più grave e decisivo di quello che vorrebbero dargli gli scrittori dei giornali borghesi. Chi potrà infrenarli, se lo Stato è incapace e le organizzazioni private sono impotenti?

Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbitri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato «restaurato» come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l’unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dai rapporti di produzione.

Articolo di Antonio Gramsci (non firmato), L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921

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Di Alberto Burgio, da Il Circolo de Il Manifesto di Bologna, 7 maggio 2014

Esi­stono legami sot­ter­ra­nei tra quanto di più sini­stro accade sotto i nostri occhi in que­ste ore sulla scena poli­tica mon­diale, dalla bru­tale stretta repres­siva in Egitto ai venti di guerra sull’Ucraina, alla pro­li­fe­ra­zione di ultra­na­zio­na­li­smi fasci­sti in tutta Europa?

Rispon­dere non è sem­plice, forse è azzar­dato. Una pro­spet­tiva che con­si­deri uni­ta­ria­mente feno­meni radi­cati in con­te­sti dif­fe­renti non è fal­si­fi­ca­bile: siamo quindi nel regno dell’opinabile, se non delle impres­sioni. Inol­tre, molto, se non tutto, dipende dalle dimen­sioni del qua­dro sto­rico di rife­ri­mento, defi­nite con qual­che rischio di arbi­tra­rietà. Resta il fatto. Minac­ciosi segnali di ten­sione inve­stono non sol­tanto quelli che nella guerra fredda erano bloc­chi con­trap­po­sti, ma anche (si pensi al dif­fon­dersi nell’eurozona di un sordo ran­core anti-tedesco) gli stessi stati euro­pei che hanno vis­suto que­sti sessant’anni in pace.

E a tali segnali si accom­pa­gna la ricom­parsa dei più cupi fan­ta­smi (nazio­na­li­smo e popu­li­smo, xeno­fo­bia e raz­zi­smo) della moder­nità «avan­zata». La sto­ria del Nove­cento sem­bra ripre­sen­tarsi in blocco sulla scena, come per un bru­sco ritorno del rimosso. E se è natu­ral­mente un caso che ciò avvenga a cent’anni esatti dallo scop­pio della prima guerra mon­diale, è vero anche che gli anni­ver­sari offrono spesso spunti istrut­tivi. Pro­viamo a vedere che cosa sug­ge­ri­sce que­sta non fau­sta ricorrenza.

Il Nove­cento è stato il secolo delle guerre mon­diali. Si suole dire per­sino che, tra il 1914 e il ’45, il mondo ha vis­suto una nuova guerra dei trent’anni. C’è del vero. L’imperialismo fu il deno­mi­na­tore comune dei due con­flitti: il primo fu uno scon­tro tra impe­ria­li­smi vec­chi e nuovi (o poten­ziali) a ridosso della prima crisi glo­bale del capi­ta­li­smo; l’imperialismo costi­tuì un fat­tore cru­ciale anche nella seconda guerra mon­diale, che la Ger­ma­nia nazi­sta sca­tenò nell’intento di dotarsi di un impero colo­niale sfon­dando prin­ci­pal­mente a est (e il colo­nia­li­smo fu un movente essen­ziale della stessa alleanza con l’Italia fasci­sta, mossa a sua volta dalla spinta all’espansione colo­niale in Africa).

D’altra parte que­sta ana­lo­gia tra­scura una dif­fe­renza essen­ziale. Nel corso della grande guerra, la prima rivo­lu­zione pro­le­ta­ria vin­cente della sto­ria tra­sforma la scena poli­tica mon­diale. Defi­ni­ti­va­mente.

Oggi non abbiamo memo­ria dell’ondata di panico che l’ottobre bol­sce­vico pro­ietta sull’occidente capi­ta­li­stico. Basti un dato, che rara­mente si ricorda: Gran Bre­ta­gna, Stati Uniti, Fran­cia e Ita­lia con­tri­bui­rono all’Armata bianca con­tro­ri­vo­lu­zio­na­ria inviando in Rus­sia oltre 600mila uomini, al fianco dei cosacchi.

Il mondo, entrato in guerra nel 1914, ne esce tra­sfi­gu­rato nel ’18. Non solo sul piano «geo­po­li­tico» ma anche all’interno dei sin­goli paesi, tea­tro, tra le due guerre, di con­flitti sociali che paiono met­tere all’ordine del giorno, in gran parte dell’Europa, la pro­spet­tiva della rivo­lu­zione ope­raia. In que­sto senso la seconda guerra mon­diale tiene a bat­te­simo il mondo con­tem­po­ra­neo, e per ciò essa è ancora un «pas­sato che non passa». Fu un con­flitto ben più com­plesso del pre­ce­dente: non sol­tanto uno scon­tro tra stati e imperi, ma anche, espli­ci­ta­mente, un urto armato tra classi sociali. La prima guerra totale della bor­ghe­sia con­tro il pro­le­ta­riato, del capi­ta­li­smo con­tro il comu­ni­smo. Il che spiega tanto l’iniziale indul­genza delle «demo­cra­zie occi­den­tali» nei con­fronti dei fasci­smi (a comin­ciare dalla guerra civile spa­gnola), quanto la reni­tenza ad allearsi con l’Urss con­tro Hitler; le bombe ato­mi­che ame­ri­cane sul Giap­pone; la man­cata discon­ti­nuità post­bel­lica nella costru­zione delle éli­tes poli­ti­che e degli appa­rati buro­cra­tici dei paesi sconfitti.

Pro­prio que­sta com­ples­sità – l’intreccio orga­nico tra fat­tore mili­tare e con­flitto sociale – è la cifra del secondo dopo­guerra. Che si svolge all’insegna dello scon­tro tra il «mondo libero» (l’economia-mondo capi­ta­li­stica) e il varie­gato blocco socia­li­sta, inter­fe­rendo pesan­te­mente nel pro­cesso di de-colonizzazione. Più che la nuova guerra dei Trent’anni (1915-45), è dun­que il ses­san­ten­nio 1939-89 la fase costi­tuente del nostro mondo. Sorto all’insegna del con­ti­nuum tra con­flitti mili­tari e sociali. O, se si pre­fe­ri­sce, sulla base dell’aperto rico­no­sci­mento della natura bel­lica – di guerra civile, direbbe Marx – della lotta di classe.

Poi cos’è suc­cesso? È cam­biato tutto? Lo si è voluto pen­sare. Nelle uto­pie «demo­cra­ti­che» che pren­dono piede a ridosso della caduta del Muro di Ber­lino (e che in Ita­lia accom­pa­gnano la liqui­da­zione del Pci) l’89-91 doveva segnare l’avvio di un’«era glo­bale di pace e di demo­cra­zia». Que­sta spe­ranza sot­tende anche l’immagine hob­sba­w­miana del «secolo breve», ma la sto­ria degli ultimi 25 anni la con­futa, e impone di leg­gere anche il nostro pre­sente in un qua­dro di lungo periodo. Non per­ché oggi il mondo sia uguale a prima. La Rus­sia post-sovietica non ha più, nem­meno di nome, un con­no­tato rivo­lu­zio­na­rio. La Cina intrat­tiene stretti rap­porti col mondo capi­ta­li­stico, di cui per diversi aspetti (com­mer­cio e finanza) è parte sem­pre più rile­vante. Il «blocco socia­li­sta» non esi­ste più, assor­bito dalla Ue o imme­dia­ta­mente sus­sunto, attra­verso la Nato, nell’orbita ame­ri­cana. Eppure il con­fine (poli­tico, eco­no­mico, per­sino sim­bo­lico) tra est e ovest resta cru­ciale. È ancora la linea lungo la quale corre più alta la ten­sione inter­na­zio­nale.

Per­ché le cose stiano in que­sti ter­mini, nono­stante la crisi del pro­getto rivo­lu­zio­na­rio nei paesi del «socia­li­smo reale», non è certo un mistero. Implosa l’Urss, l’Occidente tenta un salto di qua­lità nelle pra­ti­che del domi­nio. Teso a supe­rare la crisi strut­tu­rale del capi­ta­li­smo che ancora imper­versa (è di pochi giorni fa la noti­zia del pil Usa a cre­scita zero nel tri­me­stre), il neo­li­be­ri­smo a cen­tra­lità ame­ri­cana uni­fica i mer­cati finan­ziari con­tro le Costi­tu­zioni; rilan­cia la spesa mili­tare; esa­spera lo sfrut­ta­mento del lavoro vivo; sman­tella i sistemi pub­blici di wel­fare, frutto della com­pe­ti­zione col sistema socia­li­sta. Di qui l’esplosione delle spe­re­qua­zioni. Di qui la deriva auto­ri­ta­ria, post-costituzionale. Di qui anche l’architettura tecno-oligarchica della Ue, fun­zio­nale all’instaurarsi di gerar­chie con­ti­nen­tali coin­ci­denti con quelle vagheg­giate, nella prima metà del Nove­cento, dai teo­rici della Mit­te­leu­ropa e dagli archi­tetti del Nuovo ordine europeo.

Ma non si tratta sol­tanto del soft power del «libero mer­cato». Ancora prima della fine uffi­ciale dell’Urss la guerra guer­reg­giata torna al cen­tro della scena inter­na­zio­nale, a seguito della rin­no­vata spinta impe­ria­li­stica dell’occidente (degli Stati Uniti anche con­tro una parte dell’Europa) in Medio Oriente (Iraq) e in Asia cen­trale (Afgha­ni­stan), sino alle porte dell’ex-Urss (Geor­gia e paesi bal­tici) e della vec­chia Europa (le guerre nei Bal­cani degli anni Novanta). È così che il mondo oggi offre un pano­rama per tanti aspetti simile a quello che l’ha visto nascere. Con una miscela esplo­siva tra ele­menti del qua­dro 1914-38 (nazio­na­li­smi, irre­den­ti­smi e popu­li­smi, soprat­tutto nell’Europa fla­gel­lata dalla nuova grande depres­sione) ed ele­menti del qua­dro 1939-89 (con­flitto est-ovest, tra «occi­dente» capi­ta­li­stico e «oriente» post-rivoluzionario). Per dirla con un para­dosso, e con buona pace dei nuo­vi­smi ricor­renti, assi­stiamo alla lunga durata del secolo breve. Sulla base della regres­sione auto­ri­ta­ria degli Stati «demo­cra­tici» e della rin­no­vata cen­tra­lità del tema impe­riale e coloniale.

Se que­sto è vero, non è con­si­glia­bile sot­to­va­lu­tare la gra­vità degli acca­di­menti ai quali assi­stiamo in que­ste set­ti­mane. L’esplosione di revan­sci­smi raz­zi­sti e neo­fa­sci­sti in tutta Europa – dall’Ungheria alla Fran­cia pas­sando per Gre­cia, Fin­lan­dia e Olanda, Sve­zia, Austria e Polo­nia, per i paesi bal­tici e l’Italia – rivela il volto arcaico del capi­ta­li­smo sfi­dato dalla crisi orga­nica. La repres­sione delle pri­ma­vere arabe, la bal­ca­niz­za­zione della Libia e la restau­ra­zione del potere mili­tare in Egitto par­lano di nuovo impulso impe­ria­li­stico alla rico­lo­niz­za­zione del Medio Oriente. Il dramma dell’Ucraina rias­sume in sé e sem­bra ripro­porre tutti i motivi della tra­ge­dia nove­cen­te­sca, dallo scon­tro tra nazio­na­li­smi etnici all’urto tra bloc­chi «geo­po­li­tici», ali­men­tato in larga misura pro­prio dalla poli­tica di allar­ga­mento della Nato a est. Non è con­si­glia­bile sot­to­va­lu­tare, e non è nem­meno ragio­ne­vole scin­dere pro­cessi che, pur diversi, si col­le­gano tra loro nel con­te­sto poli­tico mondiale.

Due ultime con­si­de­ra­zioni, infine, ci riguar­dano da vicino. Fati­chiamo a vedere tutto que­sto per­ché abbiamo sacri­fi­cato gli stru­menti dell’analisi storico-materialistica a una futile – e scia­gu­rata – «moder­niz­za­zione» ideo­lo­gica. A mag­gior ragione, non sap­piamo che fare con­tro que­sta nuova corsa verso il precipizio.

Ripie­gati sulle nostre cure quo­ti­diane, siamo privi di antenne, oltre che di una dire­zione poli­tica degna di que­sto nome. Non per que­sto ripe­te­remo quanto ebbe a dire – «ormai solo un dio ci può sal­vare» – un filo­sofo com­pro­messo con il cuore di tene­bra del secolo scorso. Ma vedere una luce alla quale fare affi­da­mento sarà dif­fi­cile fin­ché, in Ita­lia e in Europa, non rina­scerà una seria forza di oppo­si­zione al capi­ta­li­smo. Capace final­mente di pre­pa­rare una tran­si­zione sto­rica già da tempo matura.

Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto il 2 maggio 2014 e dalla Fondazione Luigi Pintor

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Pier Paolo Pasolini era un grande intellettuale eretico, che pagò duramente ogni scelta di vita che fece, fino ad essere assassinato.

Dal 15 aprile al 20 luglio, Roma lo ricorda con una grande mostra, “Pasolini Roma”, al Palazzo delle Esposizioni, per testimoniare quanto poeta e città siano stati legati da un rapporto di amore-odio, attrazione-rifiuto, allontanamento-ritorno.

Di Pasolini, su questo blog, ho postato il video nel quale il poeta legge la sua opera “Le ceneri di Gramsci” dedicata al fondatore del Partito Comunista Italiano. Oggi riporto questo breve contributo di Laura Baldelli, docente di Storia e Lettatura, segretaria regionale PdCI Marche.

Non fu, per Pasolini, la Roma della “Dolce vita”, ma quella della borgata, quando da Casarsa fuggì poverissimo e umiliato dalla denuncia per corruzione di minori, da cui fu poi scagionato; nelle borgate, che lui paragonava a quelle dei paesi nord-africani per il degrado, conobbe quel mondo che ispirò i suoi primi romanzi e film.

La mostra, frutto della collaborazione con vari paesi europei e sostenuta dal programma culturale dell’UE, sarà ospitata a Barcellona, Parigi e Berlino, riconoscendo Pasolini come l’intellettuale del XX secolo che più di ogni altro è riuscito in una chiave assolutamente poetica, ad interpretare Roma.

E fu proprio Roma il suo principale punto di osservazione permanente, campo di studio, riflessione, analisi dei cambiamenti della società italiana, ma fu anche il teatro dove si perpetrarono per 20 anni le persecuzioni dei potenti nei suoi confronti, dove subì ben 33 processi, dai quali fu sempre assolto.

La mostra percorre attraverso alcuni luoghi di Roma, la vita del Poeta con foto, suoni, oggetti, manoscritti e dattiloscritti originali, brani dei film, lettere, la sua voce che recita le poesie, dipinti, fra i quali anche i suoi e testimonianze dei amici Sandro Penna, Laura Betti, Alberto Moravia, Elsa Morante, Dacia Maraini, Giorgio Caproni, Bernardo Bertolucci e tanti altri.

Si rende giustizia ad un artista completo: la critica letteraria colloca Pasolini tra i classici del secondo ‘900, perché come D’Annunzio e Pirandello ha sperimentato tutti i generi della creatività del 20°secolo: romanzo, novella, poesia, teatro, cinema, critica letteraria, saggistica politica, giornalismo, fotografia e soprattutto non ha rinunciato ad avere un ruolo, sempre scomodo, d’intellettuale presente nella società.

Molti critici letterari sostengono che lo Scrittore ha lasciato una grande eredità e continua ad influenzare la narrativa contemporanea italiana, ne sono prova Vincenzo Cerami, Enzo Siciliano, Emanuele Trevi. Anche il regista Abel Ferrara sta lavorando ad un film su Pasolini con Willem Dafoe che interpreta il Poeta ed altri importanti attori italiani.

Pasolini ci ha raccontato con la scrittura e con il cinema tutta la storia italiana: fu testimone del passaggio da Popolo Italiano a massa italiana; aveva capito subito il cambiamento culturale ed antropologico della società, senza essere sociologo, né antropologo, “era un poeta che si abbeverava nella vita e volle raccontarla non solo con le parole, ma con la carne, il sangue e con innocenza.”, come disse di lui l’allievo Vincenzo Cerami.

Fu un borghese che volle conoscere il popolo e sosteneva che durante il potere clerico-fascista-borghese, il popolo era rimasto fuori dalla storia ed era vissuto parallelamente, conservando i propri valori, ma poi era arrivato il benessere senza umanità, che aveva portato all’omologazione, all’omogenizzazione, in cui padri e figli erano schiacciati nel presente senza il senso del tempo.

Pasolini ci dà una lettura della storia dell’Italia unita incentrata sulle identità popolari: il Cristianesimo e il Marxismo, e il pensiero laico-liberale, stendardo della borghesia, non fu mai vera alternativa, ma una continuazione del potere.

Sosteneva che il borghese sapeva di vivere in un contesto storico, il popolo no; che al Fascismo interessava “costruire borghesi”; ma il capitalismo, l’edonismo consumistico della società dei consumi con i suoi bisogni indotti avevano trasformato il popolo in massa. Bisogni creati apposta dalla borghesia capitalistica, diffusi dai nuovi strumenti: la televisione, che definiva “corruttrice di anime”, con la sottocultura, il sentimentalismo ipocrita e la scuola trasmettitrice del conformismo borghese.

Denunciò la società dei consumi come un totalitarismo repressivo, il boom economico diffondeva il consumismo in tutte le classi sociali e non solo grazie al lavoro, ma anche alla pubblicità e alla televisione.

Con la scomparsa della cultura contadina tutto si appiattiva e le classi povere con il consumismo si trasformavano in borghesi conformisti e omologati. Negli scritti giornalistici “Scritti corsari” e nelle “Lettere luterane”, pubblicate postume, c’è tutta la denuncia della degenerazione della società capitalistica.

Pasolini, come Pascoli, amava il mondo rurale, la società contadina che caratterizzò l’Italia fino agli anni ’60 e forse non a caso si laureò a Bologna con una tesi su Pascoli. Ma anche nella borgata la vita era vera, autentica, non ancora inquinata dall’ideologia borghese.

Pasolini raccontò il cambiamento degli Italiani, osservando soprattutto la trasformazione dei loro corpi e del loro uso, attraverso il cambiamento estetico.

E il corpo ha avuto una grande centralità nella sua opera cinematografica: in “Accattone” c’è il corpo smagrito di Sergio Citti e consacrerà i veri volti di ruffiani, prostitute, assassini, attraverso uno stile ieratico, ispirato dalla pittura di Masaccio e i pittori del ‘300 toscano; in “Mamma Roma” l’agonia del giovane figlio che muore legato sul tavolaccio del carcere, non è altro che il Cristo deposto del Mantegna, ma c’è anche la citazione del Cenacolo di Andrea Del Sarto nella scena del banchetto di nozze. Un esempio di cinema e pittura, frutto della formazione artistica influenzata dal critico d’arte Roberto Longhi all’Università di Bologna.

Per Pasolini la gente povera viveva la sessualità spontaneamente, con vitalità e cercherà la spontaneità dei corpi nel passato con la trilogia della vita o dell’eros: “Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte”, sono tre film in costume tratti dalla letteratura del Trecento, una riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della favolistica europea e mediterranea, una caduta nella nostalgia di un passato inesistente o una sessualità immaginaria; un’illusione consapevole comunque, non fuga dal mondo, ma riflessione e creazione, considerando l’arte come conoscenza.

Il corpo però era diventato oggetto di consumo e allora abiurerà la trilogia, perchè se il popolo si era lasciato corrompere, significava che era già corrotto e colpevole, e così girerà “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, ispirandosi all’opera di De Sade, descrivendo il degrado e il gusto atroce del seviziare i corpi da parte del potere, dopo avergli tolto l’anima; il film uscì dopo la sua morte e fu molto criticato per la drammaticità delle scene.

Il critico cinematografico Sandro Bernardi lo ha definito “un’opera filosofica sul male e sulla prevaricazione….una vittoria del male nel mondo fra le più crudeli e insopportabili della storia del cinema”.

Anche poesia e cinema per Pasolini furono strettamente legati: “la poesia emoziona, è rapporto emotivo con la realtà, un grande atto d’amore per la realtà”; il cinema è strumento del realismo, ma va oltre l’apparente ed è strumento d’indagine; Bernardi lo considera l’erede di Rossellini, che proseguì l’esperienza del Neorealismo, superandone i limiti ideologici.

Tutta la sua vita fu attraversata dalla poesia, fin da quando a 7 anni scrisse la prima, poi continuò con i versi in friulano, cercando una lingua intatta che fosse l’equivalente letterario del suo religioso desiderio di purezza; quei versi conquistarono il filologo Contini. Tra le più note raccolte antologiche ricordiamo: “La meglio gioventù”, “Le ceneri di Gramsci”, “Poesia in forma di rosa” e molto altro anche in polemica anti-novecentesca, come esprimeva nella rivista “Officina”.

L’ansia di raccontare la realtà più nascosta gli fece tradire la letteratura per il cinema, “perchè l’io dietro la macchina da presa non ingombra la realtà.”

Il cinema per Pasolini fu lo strumento per raccontare la realtà in poesia. Non scelse di trasformare i suoi romanzi in film: “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” furono uno scandalo, ma per la prima volta il popolo entrava nella letteratura e soprattutto entrava con la sua lingua: dopo il friulano, il romanesco da borgata. Cambiò il linguaggio e il sistema linguistico in questo modo lo scrittore s’impadronisce del lessico popolare e racconta una storia e la trasforma in letteratura.

Anche Verga aveva scelto “la regressione”, ma non osò tanto e Gadda aveva sperimentato un nuovo linguaggio ne “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”

Odiava il romanzo psicologico, espressione della borghesia, e i personaggi dei suoi romanzi sono picareschi, senza psicologia.

Nel cinema iniziò come sceneggiatore con Mario Soldati ne “La donna del fiume”, con Fellini “Le notti di Cabiria” e molti film con Mauro Bolognini come “Il bell’Antonio”, ed anche con Bernardo Bertolucci ne “La comare secca”.

Il suo fu “un cinema di poesia” e lo affermò in molti scritti teorici e reinventò un linguaggio cinematografico autonomo di grande qualità figurativa, in cui puntò ad un’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica.

Pasolini scelse spesso attori presi dalla strada: Franco Citti e Ninetto Davoli sono i più noti, utilizzò tecnica e stile del realismo, ma fu anche visionario per il profondo rapporto con la spiritualità e la religione, come testimonia “Il Vangelo secondo Matteo”, dove fece recitare sua madre, Alfonso Gatto, Natalia Ginzburg, Enzo Siciliano negli scenari dei Sassi di Matera, composti come nelle tavole de El Greco.

Con i film “Edipo”, “Medea”, prevalse più la musica sulla parola e sul mito, e furono caratterizzati da un realismo visionario.
Nomi importanti recitarono nei suoi grandi film: Maria Callas in “Medea”, Totò in “Uccellacci uccellini”, Orson Welles ne “La ricotta”, Anna Magnai in “Mamma Roma”. Lui stesso aveva recitato per la prima volta nel film di Carlo Lizzani “Il gobbo” e poi interpretò Giotto nel “Decameron” e Geoffrey Chaucer nei “Racconti di Canterbury”.

Bernardi afferma che nell’opera pasoliniana c’è una profonda e compenetrazione tra sacro e profano, di spietato realismo e altrettanta intensa religiosità; ma non solo, per Pasolini il sesso è sacro quanto l’anima e nella carne si manifesta lo spirito.

Partecipò anche a film collettivi, dove ogni regista dirigeva un episodio e tra questi come non ricordare “Che cosa sono le nuvole’” con Totò, Ninetto Davoli e Domenico Modugno o “La ricotta”con Olson Welles per il quale fu processato per vilipendio alla religione cattolica.

Si cimentò anche nel cinema d’inchiesta con “Comizi d’amore”, un’inchiesta scioccante nell’Italia dei primi anni ’60, condotta con Alberto Moravia e Cesare Musatti.

La critica cinematografica internazionale ha premiato più volte l’opera cinematografica del regista.

Scrisse anche per il teatro e naturalmente ricercò un nuovo linguaggio che teorizzo ne “Il manifesto per un nuovo teatro” con “un teatro di parola”, si dedicò molto ai classici greci e romani con traduzioni e riscritture intese come uno psicodramma liberatorio, opponendosi al teatro tradizionale, ma anche a quello d’avanguardia di contestazione. Era iniziato come dramma teatrale il romanzo “Teorema”, che poi diventò un film sulla nullità dell’esistenza borghese.

Politicamente Pasolini fu strumentalizzato dalla destra, accusato, processato, vittima della censura, dalla sinistra non fu compreso e anche se fu espulso dal PCI dopo l’accusa a Casarsa, rimase un comunista e soprattutto un antifascista; famosa e scomoda fu la scelta di schierarsi con i poliziotti proletari che si scontravano a Valle Giulia contro gli studenti figli della borghesia, espressa nella poesia “ Il PCI ai giovani”.

Pasolini sosteneva l’utopia di un’uguaglianza fatta non per accumulo ( come voleva anche la società del benessere), ma per condivisione dell’essenziale; un pensiero vicino a quello di Don Milani, Danilo Dolci, Padre Turoldo, un pensiero con la coscienza del sacro, del divino, del metafisico e per questo anche profetico; ma i profeti non vengono mai ascoltati. Nel film “Uccellacci uccellini” emerge l’insufficienza dell’ideologia comunista di fronte alla fame atavica del sottoproletariato.
Andrea Zanzotto ha colto in Pasolini la dimensione pedagogica quella che “svela, spalanca vita”.

Giacomo Jori, giovane critico letterario, del Poeta ha scritto: “una vita consumata nell’inesausta ricerca di fraternità e unione con l’Altro”.

Importanti nomi della cultura letteraria e cinematografica hanno difeso pubblicamente più volte il Poeta e la sua opera quando venivano criticati, censurati e subivano ignobili processi.

Nell’ultimo lavoro “Petrolio”, romanzo incompiuto pubblicato postumo nel 1992, la borghesia è la protagonista ed è un’invettiva contro la Democrazia Cristiana per le stragi di stato. Del romanzo furono rubati alcuni capitoli tra cui “Lampi sull’ENI”, proprio quello di cui parlò Dell’Utri nel 2010.

Da rileggere, perché sempre attuale, è l’articolo pubblicato sul “Corriere della sera” il 14 novembre 1974 dal titolo “Cos’è questo golpe? Io so”, un’accusa al sistema di protezione costruito a proprio beneficio dal potere.

Un anno dopo fu assassinato il 2 novembre 1975, un delitto che fu deliberatamente mascherato come di matrice sessuale, e solo recentemente è stato riaperto il caso e le indagini per indagare su altri fronti.

I giovani oggi hanno bisogno di conoscere Pier Paolo Pasolini, il suo pensiero profetico, l’impegno civile che ha pagato con la morte e prima ancora con accuse infamanti per la sua dichiarata omosessualità.

Visitando la mostra ho incontrato molti giovani, mi piacerebbe che fossero contagiati dalla sua passione ideologica e culturale, dal modo di vedere il mondo con gli occhi della poesia.

Vorrei che comprendessero quanto gli fu a cuore la giustizia sociale e denunciò l’assolutismo del potere, senza mai rinunciare alla coerenza, all’umiltà, alla dignità; ci ha lasciato un patrimonio inestimabile di appassionata ricerca culturale, che è anche memoria storica del nostro paese.

La mostra termina con la sequenza tratta dal film “Caro diario” di Nanni Moretti, in cui il regista percorre in vespa l’idroscalo di Ostia dove fu ucciso, io invece lo voglio ricordare con il suo corpo mentre bravissimo gioca a calcio e con le parole della sua ultima intervista tratte da “Poesia in forma di rosa”: un uomo con una disperata vitalità.

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