Testo del discorso pronunciato dall’on. Aldo Tortorella – membro della direzione e della segreteria del PCI durante l’ultima fase della segreteria di Berlinguer e nel periodo di quella di Alessandro Natta – il 18 gennaio 2009, in occasione dell’intitolazione ad Alessandro Natta della passeggiata del Molo lungo di Oneglia.
Alessandro Natta
Rendendo questo omaggio alla memoria di Alessandro Natta la comunità di Imperia ha compiuto un gesto meritorio innanzitutto verso se stessa. Una comunità che non sappia ricordare e onorare i suoi figli migliori non può essere detta civile, perché perde il senso della propria storia e dunque del proprio stesso essere, che è determinato dal proprio divenire continuo. E di questa comunità imperiese e in particolare del popolo di Oneglia, Natta fu figlio affezionatissimo e rappresentante insigne non solo per la sua partecipazione all’istituzione comunale e per averne portato la voce in Parlamento, ma come protagonista tra i più eminenti della direzione politica dell’Italia e della costruzione della rinata democrazia italiana.
Il reggimento di un Paese democratico non è solo nelle mani della maggioranza parlamentare e del governo che essa esprime. Se a questa compete la responsabilità delle decisioni, all’opposizione spetta la non meno rilevante funzione della critica, del controllo, della prospettazione di ipotesi diverse o alternative, una funzione che stimola e influenza più o meno direttamente le scelte stesse della maggioranza e del governo. In questo ruolo, determinante è stata l’opera di Alessandro Natta in quasi mezzo secolo di vita politica, iniziata fin dai primi impegni di ricerca culturale nella vita universitaria – con i saggi su Vincenzo Cuoco e Carlo Cattaneo – e culminata con la massima responsabilità di direzione nel più grande partito di opposizione parlamentare italiano, il Pci. Di questo partito Natta fu uno dei principali costruttori assai prima dell’assunzione della segreteria nazionale, avendone inteso la particolare natura a partire dalle motivazioni che lo spinsero ad aderirvi. Si era all’indomani della seconda guerra mondiale e Natta tornava a casa dopo aver partecipato a quella particolare forma di Resistenza che fu compiuta dalla massima parte degli ufficiali e dei soldati rinchiusi nei campi di prigionia tedeschi con il rifiuto di ogni collaborazione al fascismo e al nazismo: una Resistenza a lungo ignorata e misconosciuta anche a sinistra, come Natta giustamente denunciò. La sua adesione al Pci fu dovuta a quelle che egli chiamò le “inaudite scelte” – inaudite rispetto alle posizioni e tradizioni di tipo terzinternazionalista e sovietico – compiute da Togliatti tra il ’45 e il ’47: le scelte, cioè, per una vera rifondazione, per un “partito nuovo” che chiedeva l’adesione ad un programma democratico e nazionale e non ad una ideologia, che rifiutava ogni atteggiamento puramente propagandistico e si proponeva di qualificarsi per la propria azione nell’interesse generale del Paese e, dunque, per la propria capacità di governo quale che fosse la sua collocazione parlamentare.
Di questo orientamento politico nuovo Natta fu subito un protagonista deciso, come ricorda chi ebbe qualche responsabilità nel partito ligure ed ebbe modo di conoscerne il lavoro, come capitò anche a me subito dopo la partecipazione alla Resistenza. Nelle difficili traversie del dopoguerra, ma anche poi nell’aspra divisione del mondo in campi contrapposti, non fu facile affermare quell’orientamento politico definito “togliattiano”, ma che deve molto alla complessiva elaborazione di un partito e di un gruppo dirigente di cui Natta fu esponente sempre più autorevole per un trentennio, fin da quando assunse responsabilità politiche nazionali – dopo la svolta innovatrice seguita al 1956 – collaborando strettamente con Togliatti prima e poi con Longo e con Berlinguer.
È difficile intendere bene che cosa fu quel partito che giunse da solo fino a rappresentare un terzo del popolo italiano. Nonostante il trascorrere del tempo permangono giudizi più improntati alle passioni di parte – o talora, all’avversione faziosa – che animati dal desiderio di una onesta analisi storica, anche se cresce continuamente l’apprezzamento postumo non solo degli storici professionali, o di tante persone di sinistra, ma anche di dichiarati avversari politici di ieri e di oggi. La definizione che Natta, parlando alla Camera, negli anni Sessanta, dette del proprio partito a me sembra la più precisa: “Il nostro partito – egli disse – ha compreso che lo spirito di classe deve saldarsi con lo spirito statale…” e si è assunto “come compito inderogabile quello di cimentarsi con il più grande rigore intellettuale e politico sulla intera realtà nazionale, di studiare e di preparare soluzioni valide per la società e per lo Stato e su questo ingaggiare il confronto e la lotta”. Un partito, dunque, che non vantava soltanto i suoi indiscutibili meriti, e i suoi sacrifici nell’azione per battere il fascismo, per contribuire alla Resistenza, per arrivare alla Repubblica, per cooperare alla stesura della Costituzione, ma che sapeva di dover continuamente mostrare la propria capacità di affrontare i compiti volta per volta proposti dai bisogni delle classi lavoratrici e dell’insieme del Paese e suggeriti dalla superiore necessità di salvaguardare e sviluppare la democrazia italiana.
È invalso un giudizio spesso addirittura sprezzante su quella che viene definita la “prima repubblica”. Ma, a parte il fatto che è ancora da dimostrare che la seconda sia migliore della precedente, va detto che nei primi cinquant’anni furono superati ostacoli terribili, e lo furono perché le forze politiche di allora seppero – pur tra contrasti talora anche aspri – mantenere ferma la loro comunanza antifascista e la comune fedeltà costituzionale. Solo così poterono essere evitati i rischi assai gravi, come quello che Nenni chiamò il “rumore delle sciabole” al costituirsi del primo centro sinistra, o come quello tanto più grave dello stragismo e del terrorismo. Senza quell’opera comune la democrazia italiana non sarebbe stata al riparo da pessime avventure.
Il tempo di Natta come coordinatore unico della segreteria e poi capo del gruppo parlamentare è quello che vede l’affermarsi di riforme essenziali dello Stato (per esempio la creazione delle regioni a statuto ordinario) e nella vita civile (per esempio la possibilità del divorzio), e giunge fino alla formazione dei governi di solidarietà nazionale, stroncati dall’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse: un delitto ben mirato, che lacerò il tessuto unitario composto con tanta fatica al fine di portare l’Italia ad una condizione di normalità democratica. E Natta segretario, raccogliendo un partito anch’esso colpito e diviso dalle conseguenze di quel terribile trauma che segnò in modo irrimediabile il destino della Repubblica, continuò ad operare avendo come mira la necessità di raggiungere il compimento della democrazia italiana “dimidiata” dalla conventio ad escludendum, e perciò dichiarò e fece del suo partito – lottando per tenerlo unito – “parte integrante della sinistra europea”, com’egli disse. Ed ebbe anche come giusto obiettivo quello di aprire la strada ad una nuova generazione: da cui non si attendeva certo riconoscenza ma, sicuramente, un cammino diverso da quello che essa imboccò.
Illuminista, giacobino, comunista. Con queste parole Natta volle essere ricordato all’estremo della sua vita scrivendo alla dilettissima figlia Antonella. Ma a ciascuna di queste parole egli dette la sua interpretazione di uomo di cultura e di dirigente politico.
Il suo illuminismo non era quello dogmatico della Dea Ragione, ma quello della razionalità critica filtrata attraverso la lezione hegeliana e marxiana, come dimostra tutta l’opera sua e come simbolicamente testimonia la testata della rivista ch’egli, con Longo, fondò: “Critica” – e cioè il nome della rivista di Benedetto Croce – seguito dall’aggettivo “marxista”.
Il suo giacobinismo era quello su cui aveva lavorato fin dalla tesi di laurea su Vincenzo Cuoco, il grande storico e pensatore politico partecipe della rivoluzione giacobina napoletana del 1799 tragicamente sconfitta: un giacobino nettamente avverso al terrore, e creatore di quella nozione di “rivoluzione passiva”, cui farà spesso ricorso Antonio Gramsci. Per Cuoco, “passiva” era stata la rivoluzione di Napoli, perché frutto di una élite distante, incompresa e incomprensibile dal popolo, e perciò soffocata nel sangue. In Gramsci quella espressione ritorna anche per ammaestrare ad intendere bene – non senza un riferimento implicito a quel che avveniva nell’Urss – che senza partecipazione popolare e senza consenso non c’è alcuna trasformazione possibile.
E, infine, Natta usa l’aggettivo comunista nell’accezione da lui stesso teorizzata a proposito del proprio partito, un partito che rappresentò un caso assolutamente unico – irripetuto e irripetibile – tra quelle forze politiche che avevano adottato quel nome dopo la costituzione della III Internazionale.
La lezione di Natta non finì con la sua segreteria. Rinunciando ad ogni carica formale, volendo tornare al essere semplice “frate”, e poi ingaggiando la sua ultima battaglia per la difesa dell’onore del proprio partito. Natta dette un nuovo insegnamento etico e politico, di umiltà e di fermezza. In quest’ultima battaglia Natta, e tanti di noi con lui, fummo sconfitti. Ma ora accade che molti di coloro che allora vinsero, guardando lo stato attuale della sinistra italiana – e del Paese -sono indotti a compiangere la loro vittoria di allora.
Non fu quella di Natta, mai, una lotta di retroguardia. La sua lezione univa il rispetto per la tradizione ai propositi innovatori e congiungeva una analisi scrupolosa della realtà e dei propri stessi errori, alla passione del combattente politico. È una lezione tutta vivissima per chi voglia pensare alla storia e all’avvenire del Paese e di quella sua parte che si ispira alle idealità socialistiche. Natta fu un grande dirigente politico e un grande intellettuale. Il suo maggiore biografo – e storico e sociologo Paolo Turi dell’Università di Firenze – ha impiegato 650 pagine per raccontare la sua vita e la sua attività e ne ha dovute aggiungere più di 100 per elencare i suoi scritti e discorsi fino al 1989, sicché mancano ancora tutti gli scritti del voluto ritorno ad Oneglia con la sua carissima Adele compagna straordinaria di una vita intera.
Tra le sue opere ultime, oltre al ritorno alla giovanile passione per la letteratura e per i grandi scrittori e poeti liguri, c’è un bellissimo libro sul suo concittadino Giacinto Menotti Serrati, segretario del Partito socialista italiano, che poi si unirà ai comunisti, con la frazione socialista degli internazionalisti, un libro che rivaluta Serrati, criticato da opposte parti, e ripone in discussione, pur sempre difendendo l’opera del Pci, la scissione di Livorno compiuta mentre i fascisti erano alle porte. Vale per Natta quello che egli dice di Serrati. C’è una storia politica misconosciuta da comprendere in profondità, c’è un risarcimento da dare. Ma mi sia consentito dirlo in tempi di immiserimento e di avvilimento di tanta parte della politica, da Natta c’è da imparare innanzitutto una grande lezione di rigore intellettuale e morale, la forza della ragione e la fermezza della volontà.