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Posts Tagged ‘Gamba di Legno’

Sono sempre stato affascinato dalla storia e dalle storie della conquista del West. Letture, fumetti, film western, mi hanno accompagnato durante infanzia e prima adolescenza. Divoravo Tex, leggevo Jack London e il mito della “frontiera” deve essersi impresso profondamente nella mia mente.

Poi… poi ho iniziato ad ascoltare Guccini e come dimenticare strofe come:

L’ America era allora, per me i G.I. di Roosvelt, la quinta armata,
l’ America era Atlantide, l’ America era il cuore, era il destino,
l’ America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata,
l’ America era il mondo sognante e misterioso di Paperino.

L’ America era allora per me provincia dolce, mondo di pace,
perduto paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta,
e Gunga-Din e Ringo, gli eroi di Casablanca e di Fort Apache,
un sogno lungo il suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra.

che descrivono perfettamente la visione di un bambino a proposito del Nuovo Continente.

Ma l’America è stata anche la magnifica resistenza delle popolazioni autoctone, che, sebbene inferiori per tecnologia, decisero di vendere cara la pelle ai colonizzatori. Un’epopea raccontata da moltissimi film che, nonostante il tentativo retorico di mostrare l’indiano “cattivo”, selvaggio, non sono riusciti del tutto a farci smettere di amare questi popoli fieri. Sono riusciti invece, almeno per quella parte di noi più portata alla verifica dei fatti storici, a farci valutare meglio la portata dello sterminio, l’inutilità della crudeltà, perpetrata dai colonizzatori europei. Sono quindi convinto che, oggi, parlare un po’ di questa parte della nostra storia, dei tentativi di cancellarla, di proiettare l’immagine dell’europeo civilizzatore buono, non possa che aiutarci a valutare meglio quello che sta succedendo intorno a noi, il nostro atteggiamento nei confronti dei popoli e delle culture “altre”.

Recentemente, ho comprato un libro, del quale mi ha incuriosito il titolo (Sul sentiero di guerra. Scritti e testimonianze degli Indiani d’America). È una di quelle raccolte che, se lette dalla prima all’ultima pagina, rischiano di risultare noiose. Ma, se prese a piccole dosi, una testimonianza ogni tanto, possono aiutare a far luce sullo spirito, i sentimenti, le tradizioni e il modo di vivere di questo popolo. Insomma, l’ideale per alimentare un blog…

Voglio cominciare con la testimonianza di un Cheyenne, Gamba di Legno, che ci spiega come alcune tribù indiane si preparavano alla guerra.

Come ci si prepara alla battaglia
di Gamba di Legno, Cheyenne

Wooden Leg (Gamba di Legno)

Quando un guerriero usciva in cerca del nemico, portava con sé tutti i suoi abiti migliori. Il vestiario lo si riponeva in una borsa speciale – di solito una sacca di pelle di capriolo ornata di perline, oppure anche solo una borsa di pelle cruda – che pendeva al fianco del cavallo. La sacca conteneva, inoltre, un paio di mocassini di scorta, ricamati a perline, l’acconciatura di guerra, i colori per tingersi, uno specchio, certi speciali oggetti di medicina, e altri arnesi simili. In vista di una battaglia, per prima cosa il guerriero provvedeva a togliersi gli abiti comuni, affrettandosi a indossare quelli buoni. Inoltre, se aveva il tempo, si pettinava, si tingeva il viso alla maniera che gli era propria, faceva, insomma, tutto ciò che era necessario per assumere l’aspetto più splendido possibile; in altre parole, si preparava a morire.

Non bisogna credere che l’idea di vestirsi di tutto punto in vista della battaglia sia originata dalla convinzione che ciò possa accrescere il valore del combattente: il guerriero, al contrario, si prepara per la morte, nel caso che questa sia il risultato dello scontro. Ogni indiano desidera avere l’aspetto migliore quando si presenterà al Grande Spirito, perciò il rito di abbigliarsi viene compiuto quando il pericolo è imminente, che si tratti di una battaglia, di una malattia o di un incidente in tempo di pace. Certe tribù indiane non si preoccupavano di seguire questo rituale, e pare che alcune di esse non attribuissero eccessiva importanza al fatto di rischiare la vita nudi, parzialmente coperti, o malvestiti. Ma I Cheyenne e i Sioux osservavano scrupolosamente le usanze, e quando uno di loro veniva a trovarsi coinvolto in uno scontro imprevisto, senza avere la possibilità di vestirsi come si deve, di regola si dava alla fuga, evitando il combattimento e i rischi che ne derivano. E poteva darsi che il nemico, non comprendendo quel modo di fare, fosse portato a ritenerlo un vigliacco. In realtà, quegli stessi che le apparenze denunciavano come vigliacchi, potevano essere i più valorosi degli eroi, una volta indossati i loro abiti migliori e quando avevano la certezza di potersi presentare con un aspetto decente, nel caso fossero chiamati al cospetto del Grande Spirito.

Presso i Cheyenne e i Sioux, combattevano nudi soltanto quei guerrieri che s’erano particolarmente preparati con preghiere e altri esercizi spirituali. Costoro ricevevano precise istruzioni dagli uomini di medicina, si tingevano il corpo in maniera speciale, osservando ciascuno le indicazioni della guida spirituale preferita, e ognuno possedeva certi personali poteri personali di medicina, conferitigli dalla guida stessa. Si riteneva che il guerriero, il quale si preparava in questo modo ad affrontare la battaglia, fosse invulnerabile alle armi nemiche, e il suo posto era in prima linea, sia in caso d’attacco che in caso di difesa. L’idea che lo sorreggeva era questa: “Sono così validamente protetto dalla mia medicina, che non occorre mi vesta per la morte. Non c’è pallottola o freccia che possa colpirmi, adesso”. Invece il guerriero che non si preparava con speciali cerimonie o riti religiosi, pensava tra sé: “Una pallottola o una freccia potrebbe colpirmi e uccidermi, Devo vestirmi in modo da piacere al Grande Spirito, nel caso debba andare a Lui”.

Guerrieri Cheyenne

Copricapo indiano esposto alla mostra “La nuova frontiera. Storia e cultura dei nativi d’America dalle collezioni del Gilcrease Museum”, Firenze, Palazzo Pitti (3 luglio 2012 – 9 gennaio 2013)

Non tutti i guerrieri portavano l’acconciatura di guerra: pochissimi, infatti, erano i guerrieri appartenenti ai singoli clans della nostra tribù cui tale onore fosse concesso. Si pretendeva che uno studiasse l’arte di guerra per parecchi anni, o dimostrasse di essere un allievo eccezionale, prima di poter portare la corona di penne d’aquila. E solo allora il guerriero si decideva a farlo, a volte di sua spontanea iniziativa, più spesso dietro insistenza degli anziani. Tale gesto equivaleva all’affermazione che s’era ormai raggiunta un’indiscussa abilità nel maneggio delle armi: non solo, ma così facendo si veniva anche a dichiarare che s’era in grado d’accoppiare scaltrezza, buon senso, fredda capacità di calcolo, al valore di cui ogni guerriero doveva essere dotato. Si riteneva che colui il quale indossava tale acconciatura non avrebbe mai chiesto pietà in battaglia. Se capitava che qualche giovanotto ancora immaturo pretendesse tale onore, prima che ai suoi compagni sembrasse giunto il momento opportuno, costui veniva rimproverato e invitato a frenare la sua impazienza, Io mi misi per la prima volta l’acconciatura di guerra all’età di trentatré anni, quattordici anni dopo aver iniziato la vita nomade. Quando uno era stato riconosciuto degno di portare l’acconciatura di guerra, tale onore gli spettava per tutto il resto della sua vita. Di solito, l’acconciatura di guerra spettava sia ai capi guerrieri che ai capi della tribù, ma questo non era comunque un attributo indispensabile alla loro condizione. Poteva darsi che un sentimento di modestia trattenesse i guerrieri più valorosi e capaci dall’affermare il proprio diritto, come poteva pure darsi che un uomo, universalmente riconosciuto degno di portare l’acconciatura, non fosse scelto, o rifiutasse di assumere incarichi ufficiali. Ne derivava che il copricapo di penne non era affatto un segno che distinguesse chi aveva una carica, ma un simbolo dell’opinione personale e collettiva circa quello che era il valore di combattente d’un certo guerriero.

L’acconciatura di guerra veniva preparata dall’uomo stesso, che doveva portarla. La moglie, madre, o sorella che fosse, si limitava a cucire la striscia adorna di perline che cingeva la fronte. L’uomo doveva prepararsi anche gli oggetti magici che avrebbe adoperato, oppure poteva affidare tale incarico all’uomo di medicina. Le donne cucivano l’intero corredo da guerra, dalle casacche alle uose, ai mocassini, a tutti gli altri capi di vestiario maschile; e inoltre tutti gli abiti di ogni giorno per gli uomini, per se stesse, e per gli altri membri della famiglia. Gli uomini si fabbricavano le pipe, le armi, le lariat[1], e vari oggetti di uso esclusivamente maschile.

Gli specchietti non li adoperavamo solo per vestirci e dipingerci, ma anche per fare le segnalazioni. Due persone che fossero in grado di capirsi, potevano, con questo mezzo, comunicare tra loro a grande distanza, anche quando non riuscissero a vedersi. Alcune di queste segnalazioni le comprendevano tutti i membri della tribù. Spesso si poneva mano allo specchietto quando ci si avvicinava a un accampamento e il viaggiatore non fosse sicuro che si trattasse della sua oppure di gente nemica o sconosciuta. In tal caso, i lampeggiamenti di domanda e quelli di risposta, oppure la mancanza di una risposta, toglievano ogni dubbio.

Gamba di Legno o Gambe di Legno fu forse il più famoso guerriero Cheyenne. La sua storia è narrata nel libro Memorie di un guerriero cheyenne. La lunga marcia verso l’esilio, a cura di T.B. Marquis. Nella scheda informativa riportata su ibs,com si legge:

Tra i guerrieri pellerossa il più famoso è stato senza dubbio il cheyenne Gambe di Legno (Wooden Legs), così chiamato per la sua incredibile resistenza fisica. Gambe di Legno partecipò alla battaglia del Little Big Horn contro Custer e fu contattato dall’autore del libro, Thomas Marquis, allo scopo di ricostruire il ricordo di quell’evento. Ne nacque invece una sorta di racconto lunghissimo sulla vita dei cheyenne prima di venire rinchiusi nelle riserve; un racconto vivissimo e dettagliato di tutti i fatti che riempivano le giornate della tribù, negli anni che vanno dal 1855 al 1877 circa. Il libro è prezioso per le descrizioni delle usanze guerriere e di tutti i giorni dei cheyenne e, più in generale, degli indiani delle grandi pianure di allora, quando quasi tutte le altre tribù erano ormai state sconfitte. Queste pagine hanno ispirato i capolavori che hanno reso omaggio agli Indiani di America e cantato la crudele scomparsa del loro mondo, tra cui “Piccolo grande uomo” di Arthur Penn con Dustin Hoffman e la stupenda canzone “Fiume Sand Creek” di Fabrizio del André[2].

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NOTE

[1] Lariat: corda per il bestiame, lazo (termine in uso negli “Stati dell’Ovest” e derivante dal messicano la reaza, corda a laccio.
[2] Sulla strage del fiume Sand Creek (29 novembre 1864) sto periodicamente riportando quanto scritto nel libro di Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.

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