Loriano Macchiavelli e Francesco Guccini
La quarta di copertina ci mostra due giovanotti coi capelli grigi, ma l’occhio vispo, Sono Loriano Macchiavelli, classe 1934, e Francesco Guccini, nato a Modena nel 1940 addì 14 giugno (e ne abbiamo già parlato, in fondo a questo post).
La pioggia fa sul serio è la loro ultima fatica letteraria, ed è la strenna natalizia che ho ricevuto il 26 dicembre da sorella e nipotine. Oggi è il 28 quindi non posso dire di averlo divorato, ma quasi. Chiaramente, trattandosi di un giallo non svelerò trama (qualche indicazione è disponibile a questo link) e assassino, ma ci sono alcune altre considerazioni che secondo me vanno fatte e possono risultare interessanti.
Si potrebbe dire che è un romanzo “all’americana” e non solo per il genere e lo stile di scrittura lineare. Infatti, molti autori statunitensi di best seller, come ad esempio John Grisham, usano il romanzo per veicolare dei messaggi, per sensibilizzare il lettore su temi sociali o di interesse generale. Nel nostro caso, la trama si svolge sull’Appennino toscoemiliano, nei pressi di un paesino chiamato Casedisopra, (una sorta di Vigata settentrionale) con i suoi problemi di dissesto idrogeologico, spopolamento e invecchiamento della popolazione. È chiaro fin dalla prima pagina:
Era un settembre che “così piovoso non s’era mai visto”, sostenevano i vecchi del paese. Non è detto che fosse proprio così. Certo, loro se ne intendevano del tempo e delle avversità meteorologiche. Se ne intendevano anzitutto perché non avevano molti altri argomenti di conversazione con cui passare le giornate.
A metà del mese c’era stata una vera e propria bomba d’acqua, una cosa da diluvio universale, durata un paio d’ore, roba che veniva giù così fitta da non vedere a due metri di distanza. Poi, fortunatamente, s’era un poco quietata, la pioggia, ma aveva continuato a butta già acqua per due notti e due giorni.
Il sole si era fatto vedere, per un po’, poi altra acqua, poi un poco di sole poi, neanche a dire, altra acqua.
Come conseguenza inevitabile frane, in qua e in là. Frane più o meno grosse, smottamenti, un macigno rotolato su una strada, dilavamenti vicino ai fossi ingrossati e pezzi di monte che se ne scendevano giù, verso valle.
L’argomento viene approfondito per il tramite di uno strano personaggio, che mi ha ricordato il Tönle di RIgoni Stern o alcuni dei montanari raccontati da Nuto Revelli quando girava di casa in casa per la provincia di Cuneo armato di registratore. Adùmas – questo il nome, che deve alla passione di suo padre per I tre moschettieri…-, camminando per i boschi, fra sé e sé riflette:
“Poveri boschi” pensò, “poveri castagneti, siete diventati vecchi come me. Pensare che avete sfamato generazioni di persone. Ora le castagne non le raccoglie più nessuno. Troppa fatica, dicono, non vale la pena. Ma una volta qui la fatica era di casa. Ora nessuno vuol più durare fatica. Potendo, fanno bene. Chissà però che non tocchi di nuovo durarla, quella fatica, e non tocchi alla gente, coi tempi che corrono, di tornare a pulirli, questi castagneti. Prima che sia troppo tardi, con tutte le malattie arrivate. Anche dalla Cina, arrivate. Guarda lì quel povero castagno. Secco come un…” Cercò il paragone frugando qua e là, rimuginando quei pensieri. “Secco come un Cristo in croce. Poi ci si mettono anche le frane. Quante sono state quest’anno? Con nessuno che cura più niente, basta un po’ d’acqua… oddio, un po’, ne è venuta ma tanta, non ci sono più fossetti di scolo, nei campi… è che non ci sono più campi coltivati, chi vuole ancora fare il contadino, quassù, hanno ragione, e i muretti crollano, e le mulattiere si intasano, è tutto un gran troiaio, ma in che mondo viviamo…” Imprecò a mezza voce: «E neanche un fungo, neanche l’odore, neanche quelli matti. Per forza, con tutta ‘st’acqua». Ci pensò un momento. “Andare a funghi dopo tant’acqua, ci vuole una bella voglia. Fammi provare al casone di Realdo, dove c’è sempre quella bolata. Il mio povero babbo ci trovava sempre gli ovoli, Chiappali adesso, se sei bono, gli ovoli. Mah! È che gli ovoli vogliono il pulito.” Buttò uno sguardo attorno. “E qui di pulito…”
Fra le righe, i due autori suggeriscono anche una soluzione per salvare la montagna. Soluzione che sembra banale ma, a pensarci bene, non lo è. L’Appennino tutto è stato, nei secoli, tragitto di pellegrini che, da ogni parte d’Europa, si sobbarcavano il viaggio fino a Roma. Nei posti più impensati si trovano edicole votive, chiesette, tracce di antiche osterie, e una serie infinita di vestigia, per lo più malandate, che richiamano alla memoria Medio Evo e Rinascimento. Nel romanzo, Guccini e Machiavelli parlano di una di queste, con un affresco di Piero della Francesca che richiama il mistero della Madonna del Parto, opera custodita in una chiesetta del piccolo comune di Monterchi. Insomma, Guccini e Macchiavelli ci suggeriscono, neanche troppo velatamente, di trascorrere un periodo di vacanza dalle loro parti dove, alla scoperta di meraviglie nascoste.
Anche in questo caso, il personaggio cui viene affidato il compito di illustrare il tema, è assai curioso: un estroso architetto inglese che si esprime in italiano in maniera alquanto “pittoresca”. D’altra parte:
Una frase pronunciata dal Professore tornò in mente a Gherardini: “Siamo talmente abituati alle bellezze del nostro territorio, avendole sotto gli occhi fin dalla nascita, che non le apprezziamo come dovremmo”.
E poi, nel testo, molti temi cari a Guccini (a Macchiavelli non saprei dire. Lessi alcuni suoi romanzi molti anni fa, per cui non posso dire di conoscerne l’opera), del tipo:
[…] Controllò sul cellulare: «Dieci e cinquanta».
Sua madre non avrebbe mai detto “dieci e cinquanta”. Avrebbe detto “dieci minuti alle undici”. O “le undici meno dieci”. Non usava più”.
In due frasi – e qui mi sembra di riconoscere il Guccini del Dizionario delle cose perdute – viene descritto il passaggio dall’ora analogica (le vecchie care lancette) a quella digitale. Oppure il riferimento a uno dei poeti preferiti dal maestrone, il Guido Gozzano che ci accompagna dai tempi de L’Isola non trovata:
Era rimasto colpito dalla sua figura, alta e sottile, ma ben proporzionata, un viso grazioso, bionda, con gli occhi azzurri.
“Azzurro pervinca” si disse, “azzurro di un azzurro di stoviglia… Chi è quel poeta? Ah sì, Gozzano, la signorina Felicita“. […]
E via andare… La finisco qui perché, per un appassionato gucciniano come il sottoscritto, è facile trovare infiniti riferimenti alle canzoni scritte dal “maestrone”. Talmente facile che a volte si trovano anche quando non ci sono…
Un ‘ultima riflessione, anche questa dettata, forse, dal voler trovare quello che non c’è, tanto, si dice, ogni operazione artistica vive una vita a sé. Ed è il lettore, l’ascoltatore, oppure chi guarda che ne trova un significato, anche se questo è completamente diverso da quello che l’autore aveva intenzione di comunicare. In questo caso, il genere scelto, personaggi come Adùmas, la collocazione della vicenda in quella montagna appenninica che fa parte a pieno titolo della profonda provincia italiana, la semplicità di linguaggio, mi hanno fatto pensare alle note scritte da Gramsci nei Quaderni del Carcere in relazione all’assenza di una letteratura nazionale-popolare nell’Italia dell’inizio del secolo scorso e per tutto il precedente, quando si parla delle nuove forme di intrattenimento culturale per il popolo: il romanzo d’appendice in Francia e il romanzo poliziesco in Inghilterra.
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PS: per approfondire il tema del rapporto dei due autori con la montagna, consiglio di leggere l’intervista a Macchiavelli e Guccini curata da Wu Ming 2 su La Domenica di Repubbica,del 19 giugno 2011: “T’î pròpi un muntàner“
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