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Posts Tagged ‘Olivier Blanchard’

Pietro Reichlin, eutopiamagazine.eu, 21 settembre 2015

La crisi greca ha prodotto una notevole divaricazione d’idee tra esperti e commentatori. Una scuola di pensiero influente esprime un punto di vista molto critico nei confronti della Germania, delle istituzioni europee e, qualche volta, della stessa idea di unione monetaria.

La gestione della politica monetaria e fiscale a livello europeo sarebbe troppo concentrata sull’obiettivo di ridurre i disavanzi di bilancio, e dominata da scelte tecniche invece che politiche.

In concreto, occorreva dare alla Grecia maggiore spazio fiscale (un piano di rientro dai disavanzi più lento) e concedere un ulteriore taglio del debito. Queste concessioni avrebbero comportato un costo irrilevante per l’Eurozona e consentito alla Grecia di uscire dalla crisi.

Autorevoli economisti (tra cui Eichengreen, Stiglitz e Krugman) hanno apertamente criticato l’ultimo accordo perché esso non contiene misure di stimolo fiscale ed è troppo oneroso per il paese.

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Su questo argomento vedi anche “Usa: studenti dichiarano guerra a economisti. Duello tra Piketty e neoclassici“, Wall Street Italia, 7 gennaio 2015.

Alfonso Gianni, Il Manifesto, 6 gennaio 2015

Una frase di protesta proiettata sulla parete nel corso della conferenza

Il con­fronto tra due noti eco­no­mi­sti, Tho­mas Piketty, autore del for­tu­nato Il Capi­tale nel XXI secolo e Gre­gory Man­kiw, con­ser­va­tore ex con­si­gliere di Bush, tenu­tosi l’altro giorno a Boston nella gre­mi­tis­sima Indi­pen­dence Ball­room dell’Hotel She­ra­ton è stata stra­vinta dal primo. A rife­rirlo – e anche que­sto è molto signi­fi­ca­tivo – è il Sole24Ore, tra­mite la penna di Carlo Basta­sin che colora il suo arti­colo di gustosi epi­sodi, come le cri­ti­che di John Sti­glitz alle teo­rie di Man­kiw pro­iet­tate sulle pareti della sala in con­tem­po­ra­nea alla discus­sione, oppure l’accorato appello di un gio­vane eco­no­mi­sta alla ribel­lione nei con­fronti del capi­ta­li­smo e a por­tare la pro­te­sta nelle Uni­ver­sità. Tanto da far dire all’articolista del gior­nale con­fin­du­striale che erano decenni che un dibat­tito eco­no­mico non susci­tava pas­sioni tipi­che di una assem­blea stu­den­te­sca di stampo sessantottino.

Eppure il libro di Piketty ha susci­tato per­ples­sità e cri­ti­che anche a sini­stra, alcune delle quali più che giu­sti­fi­cate. Come quelle di David Har­vey o di Chri­stian Marazzi, per citarne solo alcune tra le più auto­re­voli, che hanno giu­sta­mente impu­tato all’autore fran­cese di con­si­de­rare il capi­tale come una cosa, scri­vendo di fatto una sto­ria del patri­mo­nio, e non un rap­porto sociale mediato da cose come in effetti è. Infatti il lungo sag­gio di Piketty si con­cen­tra più sui sin­tomi che non sulle cause dell’aumento delle dise­gua­glianze sociali. Inol­tre è assente l’analisi del ruolo poli­tico del debito nella pola­riz­za­zione della ric­chezza a sca­pito del lavoro vivo e della coo­pe­ra­zione sociale.

Tut­ta­via ciò che conta – al di là dell’ambizione spro­po­si­tata del titolo, pro­ba­bil­mente non col­ti­vata dall’autore mede­simo – è che Il Capi­tale nel XXI secolo è una incon­fu­ta­bile foto­gra­fia del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo che con «pre­ci­sione atroce», per dirla con lo stesso Har­vey, ha regi­strato il dila­tarsi delle disu­gua­glianze lungo il secolo pas­sato a livello mon­diale. Ed è in que­sta chiave che va letto e con­si­de­rato. Qui sta la sua forza pro­rom­pente di cri­tica al neo­li­be­ri­smo, ossia a quelle teo­rie che hanno con­ce­pito la dise­gua­glianza, quindi la com­pe­ti­zione, come il motore dello sviluppo.

Piketty è pas­sato anche da que­ste parti. Ha tenuto con­fe­renze, fra le quali una alla Camera dei Depu­tati, ma senza susci­tare così forti entu­sia­smi. E’ curioso – se riper­cor­riamo con nostal­gia il ricordo degli anni Ses­santa e Set­tanta — e anzi forse spia­ce­vole dirlo, ma biso­gna ammet­tere che l’ambiente intel­let­tuale che si respira oltre Atlan­tico, almeno in ambito uni­ver­si­ta­rio o negli imme­diati din­torni, è molto più ricet­tivo che non nel nostro paese e in tanta parte d’Europa. Mal­grado la crisi eco­no­mica abbia pro­prio nel nostro vec­chio con­ti­nente le con­se­guenze più pro­fonde e dura­ture, a cause delle scia­gu­rate poli­ti­che pro cicli­che por­tate avanti dalla Ue e dai sin­goli governi. E quindi più urgente sia la neces­sità dell’elaborazione di alter­na­tive di poli­tica economica.

In Ita­lia e in buona parte d’Europa – con la grande ecce­zione della Gre­cia e della Spa­gna — la cri­tica supera a stento l’ambito acca­de­mico o una sini­stra spesso stol­ta­mente ver­go­gnosa dell’importanza data nel pas­sato alle que­stioni eco­no­mi­che. Intanto Oli­vier Blan­chard, il capo eco­no­mi­sta del Fondo Mone­ta­rio ci avverte che ci sono degli «angoli bui» nella teo­ria eco­no­mica (più ele­gan­te­mente Nas­sim Nicho­las Taleb li avrebbe chia­mati «cigni neri») che hanno impe­dito di pre­dire e ana­liz­zare per tempo la crisi. La famosa domanda rivolta anni addie­tro dalla Regina Eli­sa­betta a un ple­num di eco­no­mi­sti «Come mai non avete pre­vi­sto la più ter­ri­bile crisi di tutti i tempi?» è rima­sta ancora senza rispo­sta. Intanto tutti i modelli – inter­pre­ta­tivi e pre­dit­tivi – sono sal­tati, spe­cie quelli mate­ma­tici che pare­vano a torto i più solidi.

La distanza è side­rale. Basta con­fron­tare la pro­po­sta che emerge dal lavoro di Piketty e che è rim­bal­zata nella discus­sione di Boston sulla neces­sità di isti­tuire una tassa mon­diale sulla ric­chezza, una sorta di patri­mo­niale uni­ver­sale, e lo squal­lido dibat­tito, con annessi risvolti da romanzo giallo d’appendice, attual­mente in corso sul fami­ge­rato arti­colo 19 bis del decreto di delega fiscale, che ha isti­tuito una sorta di «modica quan­tità» di eva­sione fiscale, pari al 3% dell’imponibile e che avrebbe garan­tito la deru­bri­ca­zione di reati e la can­cel­la­zione di ini­bi­zioni ai pub­blici uffici per Sil­vio Ber­lu­sconi. Da una parte si cerca almeno di tagliare le unghie a quei ric­chi che con orgo­glio – vedi le dichia­ra­zioni di War­ren Buf­fet — hanno riven­di­cato di avere vinto quella fase della lotta di classe che si è svi­lup­pata nel mondo negli ultimi qua­ranta anni; dall’altra truf­fal­di­na­mente si tenta di garan­tire nuovi mar­gini e impu­nità all’evasione e l’elusione fiscale.

Solo la forza delle idee non riu­scirà a bucare quella imper­mea­bi­liz­za­zione che il capi­ta­li­smo euro­peo ha saputo costruire a sua pro­te­zione.

E’ evi­dente che ci vuole un fatto con­creto ed esterno al dibat­tito eco­no­mico per dare una scrol­lata. L’occasione c’è ed è quella della più che pro­ba­bile vit­to­ria di Syriza in Gre­cia. A con­di­zione che si sap­pia che la cosa più dif­fi­cile viene dopo, quando comin­cerà un brac­cio di ferro con le eli­tes poli­ti­che, buro­cra­ti­che ed eco­no­mi­che della Ue per pro­ce­dere ad una ristrut­tu­ra­zione del debito.

In que­sto senso pos­siamo essere più otti­mi­sti di qual­che tempo fa. Il pen­siero unico in campo eco­no­mico è defi­ni­ti­va­mente spez­zato e le pos­si­bi­lità per un rivol­gi­mento poli­tico in Europa non abi­tano sol­tanto nel mondo dei desi­deri. Come è noto Key­nes con­clu­deva la sua opera mag­giore dicendo che spesso i gover­nanti seguono le indi­ca­zioni di qual­che oscuro eco­no­mi­sta del passato.

E’ suc­cesso così per il neo­li­be­ri­smo. Per Key­nes, che mar­xi­sta pro­prio non era, «pre­sto o tardi sono le idee, non gli inte­ressi costi­tuiti, che sono peri­co­lose sia nel bene che nel male». Spe­riamo che que­sta volta lo siano nel bene e presto.

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